Ci sono giocatori che ottengono fama e successo fin dai primi vagiti sportivi. Penso a Cassano e Balotelli, cristallini talenti mai del tutto esplosi che hanno indossato alcune fra le maglie più prestigiose del mondo.
Ci sono poi campioni assoluti, fuoriclasse, che invece faticano ad emergere, poco spinti da stampa e procuratori o semplicemente sottovalutati dagli osservatori di tutto il mondo. Uno di questi è senza ombra di dubbio Diego Milito, centravanti argentino dallo straordinario talento e dall'innato fiuto del goal. Eppure, nonostante numeri da fuoriclasse, atteggiamento da professionista e carattere da leader, Diego Milito raggiunge l'apice della carriera a 30 anni, troppo tardi per il meraviglioso giocatore che è stato.
Nato a Bernal, Diego è il più vecchio di due fratelli che hanno nel pallone il proprio destino. Nonostante fra Gabriel e Diego ci sia un solo anno di differenza, i due abbracciano scuole calcio diverse. Gabriel, detto Gabi, si lega all'Independiente, uno dei tre club più importanti e blasonati dell'intera Argentina. Diego, invece, si affida alle cure del Racing Club di Avellaneda, squadra con un glorioso passato ma in difficoltà nella seconda metà degli anni '90.
Fra i due è chiaro che Diego è quello "con i piedi buoni", eppure gli osservatori di tutto il mondo mettono gli occhi su Gabriel, che si guadagna ben presto il soprannome "El Mariscal", per il suo gioco fisico, maschio, rude. Ma in famiglia il fuoriclasse è il primogenito, che non a caso viene soprannominato "El Principe", un po' per la sua somiglianza a Enzo Francescoli, un po' per il suo modo di accarezzare il pallone. Ma evidentemente il successo non è nel suo destino, almeno per ora. Mentre Gabi diventa una colonna della Nazionale e va a giocare nella Liga spagnola, Diego resta fermo al palo.
La prima chiamata europea arriva tardi, nel 2004. A far suonare il telefono di casa Milito è il presidente del Genoa Preziosi, che decide di investire su di lui per riportare il grifone in Serie A. Milito accetta di buon grado la cadetteria e risponde presente a suon di gol, realizzandone 33 in 59 presenze e contribuendo in maniera decisiva al ritorno del Genoa nel grande calcio. In estate, il dramma. Il Genoa viene squalificato per illecito, e retrocesso in Serie C. Milito non si può permettere a 26 anni di ripartire da così indietro e decide di andarsene. Inspiegabilmente dalla Serie A nessuna offerta, ed ecco la chiamata del Real Saragozza di suo fratello Gabriel. I due, che mai fino a quel momento avevano giocato insieme, fanno le fortune della squadra aragonese, portandola al sesto posto. Gabriel è un muro in difesa, ma ancora una volta il leader è Diego. Con giocate incredibili e goal a raffica s'impone come uno dei bomber più prolifici d'Europa. A quasi 30 anni ha ormai raggiunto una maturità calcistica totale, che gli permette di essere decisivo sempre e comunque.
Nel 2008, dopo la pazzesca retrocessione del Real Saragozza (nonostante 15 reti del solito Diego Milito), il centravanti argentino cambia aria. La miopia, stavolta, è degli iberici che se lo lasciano scappare. Ad approfittarne è ancora una volta il Genoa di Preziosi, tornato in massima serie dopo l'inferno delle categorie minori.
L'impatto di Milito con la Serie A è come quello di un jet con il muro del suono. Diego Milito è un giocatore completo, che segna e fa segnare, ma che soprattutto rende una squadra di medio livello una seria candidata alle posizioni di vertice. Le giocate di Milito passano inosservate ai più, ma non ai vigili occhi di Josè Mourinho, non a caso soprannominato "Special One". Il sodalizio fra l'Inter e Milito si rivela strabiliante. Raccogliere l'eredità di Zlatan Ibrahimovic sarebbe stata dura per qualsiasi campione, rendere il centravanti svedese un pallido ricordo è impresa per un solo fuoriclasse.
In coppia con Eto'o, reduce dai successi agrodolci in terra catalana, trascina l'Inter sul tetto d'Europa dopo svariati decenni, dimostrando ancora una volta che i campioni, nel calcio, non sono quelli con il cognome o il pedigree, ma quelli che in campo fanno la differenza. E allora c'è da chiedersi, com'è possibile che un campionissimo del calibro di Diego Milito sia giunto al suo culmine solo a 30 anni? Francamente non me lo spiego, se non pensando che tanti dirigenti del nostro calcio non sanno fare il proprio lavoro, o antepongono gli interessi economici a quelli del campo.
In estate, dopo un triste ed arido saluto alla sua Inter, Diego Milito torna a vestire la maglia del Racing, squadra che lo ha lanciato nel calcio che conta. Le ginocchia non sono più quelle di un tempo, la corsa non è fluida e i muscoli non rispondono ad ogni sollecitazione. Ma c'è qualcosa che non si perde, ed è l'essere un leader. Dentro e fuori dal campo. Milito si dimostra un vero capitano e guida i suoi compagni, non di certo una rosa di fenomeni, a giocare con il cuore e con la testa, dando l'anima in campo.
E dopo 13 anni ecco tornare ad Avellaneda il titolo, soffiato al più quotato River Plate dopo un inseguimento durato mesi. La classica fiaba a lieto fine, una di quelle storie di cui il calcio moderno ha davvero bisogno.
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