Esperto di Calcio

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30 aprile 2014

Clarence Seedorf e il paradosso del Diavolo

Sembra ormai certificato il divorzio fra Clarence Seedorf ed il Milan. L'olandese, approdato a Milanello per precisa richiesta di Berlusconi, potrebbe essere scaricato dopo pochi mesi dal suo insediamento. E' naturale domandarsi perchè il Milan abbia deciso un tale destino per il suo allenatore, e francamente non mi so dare una risposta chiara. Proviamo a capire insieme perchè Seedorf dovrebbe essere confermato; o perchè sia giusto dirsi addio precocemente. 
Clarence ha lasciato questo inverno il calcio giocato, in maniera abbastanza inaspettata. Arrivava da una stagione intensa con la maglia del Botafogo, eppure ha appeso le scarpe al chiodo. Penso lo abbia fatto per il Diavolo, troppo forte il richiamo dei colori rossoneri per un giocatore che ha fatto la storia del club. E' stato fischiato e spesso ingiustamente criticato da una curva che, dopo i fischi a Maldini, non ha più smesso di sconvolgermi. Eppure Seedorf ha sempre provato un amore incondizionato, totale, verso il Milan; ed ecco la scelta: addio al rettangolo verde, è ora di infondere conoscenza da fuori.

Il 16 gennaio s'insedia a Milanello, succedendo a Max Allegri. Il toscano, partito bene al suo primo anno, è andato in costante calando, fino al tracollo di Sassuolo. Clarence rappresenta il nuovo che avanza, ma il materiale tecnico nelle mani dell'olandese è quello che è. In primis la squadra non l'ha fatta lui; in secundis la qualità della rosa è ben lontana dai giorni migliori. Clarence non si scoraggia e inizia un percorso irto e tortuoso. Ad oggi sono 16 le apparizioni sulla panchina rossonera, con 9 vittorie e 2 pareggi. Francamente non mi sembra un brutto viatico, specie se pensiamo che le sconfitte sono arrivate contro la Juventus, la Roma e l'Atletico Madrid, non proprio delle squadre scarse. Di contro un importante successo a Firenze ed un derby alle porte, che potrebbe riaprire scenari per la qualificazione del Milan all'Europa League. Certo, non un gran traguardo per una squadra abituata all'Europa che conta, ma pur sempre meglio di nulla.

Eppure, nonostante dei risultati soddisfacenti, si parla quotidianamente di una sua sostituzione. Due i motivi principali: scarso feeling con lo spogliatoio e con la proprietà. Ma come, mi domando, non era stato proprio il presidente in persona a volerlo a tutti i costi? E soprattutto, chi potrebbe sostituirlo? Ecco, proprio rispondendo a questo quesito rimango un momento di stucco. I media parlano di Inzaghi, che tanto bene sta facendo con la Primavera, ma che un tecnico esperto non è. Sembra quasi che la scommessa Seedorf, seppur non si possa dire che sia stata persa, possa essere accantonata in favore di un nuovo azzardo. Una scelta di questo tipo, a mio modo di vedere, non avrebbe alcun senso. L'olandese è uomo di calcio capace e intelligente; prima ancora di essere stato un grande giocatore, ha dimostrato di essere un uomo integro, con un cervello ben funzionante. La sua filosofia, tanto in panchina quanto in sala stampa, l'ho sempre apprezzata. Sta facendo un ottimo lavoro, specialmente se pensiamo a quanti giocatori di medio-basso livello si trova a dover allenare.
Gente come Constant, Mexes, Zaccardo, Muntari e Birsa non avrebbe potuto nemmeno metter piede a Milanello qualche anno fa. I giocatori d'esperienza, Abbiati, Kaka e Robinho su tutti, sono troppo d'esperienza per vincere da soli le partite; Balotelli continua con le sue personalissime battaglie mediatiche, via microfono o social network, senza caricarsi la squadra sulle spalle. L'unica luce, per ora, è Adel Taarabt, giocatore da sempre talentuoso e che nessuno, prima di Seedorf, aveva saputo valorizzare tanto.

Il lavoro in panchina dell'ex centrocampista è stato buono, a tratti molto buono. Il Milan non gioca un calcio divertente o spumeggiante, ma siamo sicuri che sia colpa di chi siede in panchina? Io per nulla. Capirei se al timone si mettesse un allenatore esperto, vincente; ma puntare su Inzaghi sarebbe un errore. In primis verso l'ex bomber rossonero, che senza i giusti investimenti farebbe la stessa fine di Seedorf. E qui si torna al serpente che si morde la coda, perchè se prendi un manager vincente questi pretende investimenti importanti. E allora non è meglio accontentare Seedorf e continuare il sodalizio? Ai posteri l'ardua sentenza.

28 aprile 2014

Storie di calcio: Daniel Alves, uno schiaffo al razzismo

Il razzismo è un problema. Va tanto di moda dire che l'Italia è un paese razzista, dove ululati e insulti rappresentano un problema vero, mentre all'estero godono di cultura e classe. Questo non è vero, non lo è mai stato e mai lo sarà.
La Spagna, uno dei fari del movimento calcistico itnernazionale, vive realmente questa piaga, e non fa molto per debellarla. Anzi, non fa nulla.
I più si saranno dimenticati, ma mentre qui da noi ci inventiamo squalifiche per "insulti territoriali", altrove non fanno nulla quando viene fatto il verso della scimmia a Eto'o come a Paulao.





La risposta migliore a questi ignoranti, però, l'ha data ieri Daniel Alves. Nessuna scenata o polemica, ma tanta tanta classe. Non ha dato soddisfazione ad un gruppo di trogloditi retrogradi, capaci solo di dileggiare in branco, protetti dalla massa e dalle barriere. In alcuni casi, purtroppo, anche dalla legge.



Gesti così valgono più di mille prese di posizioni; sono più incisivi di tante parole. Le federazioni e la FIFA potrebbero prendere appunti, non servono infinite riunioni, ciò che si deve fare è agire.

23 aprile 2014

Storie di calcio: Ariel "El Burrito" Ortega

Estro, follia e classe. Sembrano la ricetta per un disastro, ma non sono altro che le componenti del campionato argentino, un luogo sacro per i giovani talenti sudamericani. In tempi non sospetti ho raccontato la storia di uno dei più forti trequartisti degli ultimi anni, Juan Roman Riquelme; oggi voglio invece ricordare le giocate e le follie di un altro pazzesco talento albiceleste, Ariel Arnaldo Ortega.
Dio tifa Boca, un gran bel portale, scrive parlando del Burrito:
"Sposare una squadra, non vuol dire non vedere oltre. Non poter godere di bellezze non proprie. Ed ecco ad esempio perché, nonostante la mia assurda e cieca devozione al Boca, mi chiedo come non potrei urlare al mondo intero che Ariel Ortega, per me, è stato uno dei migliori poeti della pelota che io abbia mai visto solcare, incantare e seminare con tale talento ‘non umano’ un campo di calcio ?
Senza ombra di dubbio devo dirlo e ribadirlo. Senza neanche pensarci troppo. No.
Si perché Ariel è stato letteralmente uno dei miei preferiti, uno dei miei idoli incontrastati, uno di quei ‘mostri sacri’ che hanno avuto il compito e l’onere di farmi innamorare di questo sport talmente tanto che adesso, io, non posso farne veramente più a meno.
Più del pane. Più dell’acqua che serve al mio corpo Prima di tutto, adesso, per me, c’è il fùtbol e le sue divinità. Una di queste, è appunto Ariel. L’immenso Ortega. Lo stratosferico Ortega.
Amato da me come se fosse uno dei miei, acclamato dal mio cuore nonostante fosse simbolo e ‘Dio’ dell’altra, malvagia ed odiatissisma, parte di Buenos Aires, quella delle galline. Ma questo non importa. Ho sempre amato quel ‘flaco’ dai piedi così maledetti ed imprevedibili che poteva inventare magia e calcio da un momento all’altro. Ha poca importanza che lui non abbia mai giocato per i miei colori, apparte nella piccola parentesi parmense, dove ha indossato gli stessi amati cromatismi bochensi. Si perchè per il resto della sua esistenza, lui, ha sempre giocato solo e soltanto per quelli che non potranno mai essere i miei colori.
Lui ha giocato per anni in quello che, anche se bellissimo, non sarà mai e poi mai il mio stadio.
Lui ha mandato in estasi gente che non mi apparterrà mai.
Ha visto l’inferno ed il paradiso con una maglia che odio e sempre odierò.
Tutto questo, purtroppo, non importa. L’evidenza deve essere mostrata, detta, spiattellata e resa pubblica, al di lá dei colori, al di lá della fede, al di lá di una verità che molte volte può fare male
".


Io lo capisco, eccome. Nonostante quei colori maledetti, ho sempre amato il Fenomeno, il primo Ronaldo che mi balzerà sempre nella mente. E Ortega, nonostante una stagione in chiaro-scuro con la maglia ducale del Parma, è stato un gran giocatore. Uno di quei predestinati, nati con un dono che pochi hanno la fortuna di avere. Ariel Ortega, nato calcisticamente nella cittadina di Ledesma, è il classico bambino prodigio. In strada incanta i passanti con i suoi palleggi, lunghi e duraturi; in campo annichilisce i bambini avversari, incapaci anche solo di colpirlo per fermarlo. Il suo piede destro, educato e delicato quasi come il mancino di un grande argentino del passato, regala rabone, pallonetti e dribbling a profusione. Troppo forte per giocare con i coetanei; inarrestabile anche per i ragazzi più grandi, indispettiti ed intimoriti al cospetto del piccolo asinello.
Nel 1991, a 16 anni, è già una colonna del River Plate e fa sognare l'intera nazione. L'Argentina, a quei tempi, ha un grosso, grossissimo, problema. Diego Maradona, il Dio del Boca, è in fase calante, ha quasi esalato il suo ultimo respiro calcistico. Ecco allora che Ortega, un ragazzino capace di accendere anche le giornate più buie, diventa il "nuovo Maradona". El Burrito, però, non ha il carisma di Diego; non ha la continuità di Maradona, nè la sua sfrontatezza. Ha colpi geniali, li dispenserà qua e là per tutta al carriera, ma non sarà mai Diego. Ed è giusto che sia così, perchè nemmeno Messi è Maradona, ogni calciatore è unico, nel bene e nel male.

Ortega incanta con la maglia dei Millonarios e con la camiseta valenciana, il suo primo approdo nel calcio europeo. A portarlo in Italia è la Sampdoria di Mantovani, che nonostante il talento del Burrito e la concretezza sotto porta di Montella retrocede. A Genova incanta con giocate sontuose, ma si fa vedere anche per quello che è uno dei suoi vizi più noti: la bottiglia. E così si avvia verso la fine della sua carriera, un misto di rimpianti e delusioni contornati da momenti di classe pura.
A raccontare la fine dell'era del Burrito, di nuovo le parole di Dio tifa Boca, un impressionante amante del folletto argentino.
"Destro, sinistro, colpo di tacco ed esterni da paura. Niente. Niente che quel maledetto vagabondo ubriacone non sappia fare, se solo si mettesse in testa di giocare seriamente.
Di giocare da Ortega, e non da Maradona.
Purtroppo però la stagione per la squadra genovese non va affatto bene, tanto che la Samp a fine campionato retrocede ed Ariel è il pezzo più pregiato del mercato che di li a poco inizierá.
Le grandi squadre però non possono permettersi un tale giocatore, talento si, ma discontinuo da far rabbia.
Alla fine la spunta il Parma, squadra dove il destino bastardo ha fatto si che giocasse un suo grandissimo ex compagno di squadra, anch’esso amico e guerriero di mille battaglie e gioie, Hernan Crespo, con cui vince una SuperCoppa italiana a stagione ancora da iniziare, ai danni del Milan del neo acquisto Shevchenko e della pantera nera George Weah.
I rossoneri passano in vantaggio al 59esimo con gol di Guglielminpietro, ma proprio Crespo pareggerà sette minuti dopo e Boghossian, nel pieno recupero, gelerà San Siro con un colpo di testa che porta i ducali in Paradiso.
Sembra proprio giunto il momento buono per Ortega per fare il tanto agognato salto di qualità, ma ahimè, neanche stavolta è quella buona: Ariel ricade nel suo maledetto vizio di incaponirsi troppo in giocate fini a se stesse, mentre fuori dal campo troppe volte cerca felicità nel fondo di una dannata bottiglia.

A fine stagione, così, finisce la sua, non certo positiva, avventura italiana.
Ariel fa rotta verso casa: torna al River.
Con’La Banda’ ritrova finalmente lo smalto dei bei tempi andati, come se l’aria di casa lo avessere rigenerato, tanto che, insieme a compagni del calibro di Radamel Falcao, Diego Buonanotte, Sebastian Abreu e Alexis Sanchez, riporta la gente del Monumental sulla vetta più alta del paese, vincendo, con i ‘millonarios’, un campionato mai in discussione: il Clausura 2002.
Ben presto il nome di Maradona torna ad accoratarsi al suo. Ed ad Ariel questo non piace.
A 28 anni decide così di scappare da quelle voci e di affrontare di nuovo un’avventura in Europa: stavolta ad aggiudicarsi i suoi servigi sono i turchi del Fenerbahce.
Dopo un inzio di stagione tutto sommato postivo, a febbraio il ‘burrito’ viene convocato dalla nazionale albiceleste per una partita.
Niente di strano direte. È no. Ariel, infatti, vola in Argentina, ma una volta riunitosi con amici ed ex compagni, decide di non fare più ritorno sul Bosforo.
La dirigenza dei ‘canarini gialli’ va letteralmente su tutte le furie. Porta l’asinello in tribunale e vince la causa, forte del fatto che Ortega aveva ancora tre anni e mezzo di contratto con gli acerrimi nemici del Galatasaray.
La FIFA lo squalifica fino alla fine dell’anno e lo costringe a sborsare la cifra monster di 11 milioni di dollari.
Dopo questa mazzata devastante, Ariel decide di dire addio al calcio
".

22 aprile 2014

Storie di calcio: la crisi blaugrana e la follia dei suoi tifosi

"Mercenari". Una ignobile etichetta per dei campioni che hanno portato il club sul tetto del mondo. Più vado avanti e più penso che il tifo organizzato, da qualunque nazione provenga, sia uno dei mali di questo sport.
Ripercorriamo i fatti: dal 2008 al 2013 il Barcelona non si limita a vincere, ma stravince. I blaugrana cambiano la concezione di calcio, un po' come l'Ajax di Cruijff o il Milan di Sacchi; Guardiola non si limita a raccogliere l'eredità vincente del Barcelona di Rijkaard, impartisce ai catalani una nuova filosofia. Non tutti hanno amato o amano il tiki-taka (ammesso e non concesso che si scriva in questo modo), ma è senza dubbio innegabile che questa filosofia di gioco abbia regalato partite emozionanti, vibranti. Tanto in Liga quanto in Champions, il Barcelona si è imposto come il club più vincente del nuovo millennio.
I tifosi, estasiati dalle giocate di campioni del calibro di Xavi, Iniesta e Lionel Messi, hanno negli anni gremito il Camp Nou ed arricchito la società ed il marchio catalano. La squadra li ha ripagati sul campo, conquistando titoli a profusione, in Spagna, Europa e nel mondo.

Nell'estate 2011 Pep Guardiola saluta la Catalogna designando un successore: Tito Vilanova. Il tecnico iberico, storico vice di Pep, guida la squadra con lo stesso gioco del predecessore. Possesso palla e giocate di alta scuola confermano il Barcelona come il club dominatore in Spagna. In Champions il cammino non è quello dei vecchi tempi, ma è solamente il super Bayern di Heynckes a spegnere la corsa blaugrana verso l'ennesimo alloro europeo. Tito, però, è tartassato dalla sfortuna. Un tumore lo porta a rinunciare alla panchina del Barcelona, che la dirigenza decide di affidare per la prima volta dopo anni ad uno straniero. Il Barça non è nuovo ad affidarsi a manager stranieri, ma è la scuola olandese quella che ha saputo rimpolpare la bacheca della sede. Stavolta, però, il tecnico arriva dall'Argentina, più precisamente da Rosario. Gerardo Martino, soprannominato El Tata, viene ingaggiato alla vigilia della Liga per guidare la squadra.

Martino si siede sulla panchina più ambita di Spagna e le voci si sprecano. I più dicono sia stato lo stesso Messi a volerlo in Catalogna, ma questo, io, francamente non lo so. Di certo mi sono accorto che Martino è entrato nel mondo catalano con i piedi di piombo. La squadra non l'ha fatta lui, ma il materiale a sua disposizione è di primissima qualità. Pronti-via, il difficile non è tanto dare una fisionomia di gioco alla squadra, che potrebbe esprimersi con il pilota automatico, ma far convivere le stelle dell'attacco. Messi è probabilmente il giocatore più forte della terra, e accanto a lui s'inserisce un certo Neymar. All'inizio l'ingaggio del brasiliano sembra un affare, poi viene fuori la verità: l'acquisto di Neymar ha prosciugato le casse blaugrana.

La convivenza fra la Pulce ed il carioca non è semplicissima, ma pian piano funziona. I problemi emergono lentamente, tanto in Catalogna quanto nel resto della penisola iberica. Il Barça vive una stagione sfortunata, perdendo praticamente tutta la difesa nel momento clou della stagione. Valdes si fulmina i legamenti; Puyol e Piquè riempiono l'infermeria. La cerniera difensiva del Barcelona, che non è mai stata il punto forte della squadra, inizia a sgretolarsi. Mascherano, senza una guida, finisce per annegare; Bartra fatica come pochi.
Parallelamente, in Spagna, le due compagini madrileni tornano ai fasti dei vecchi tempi. Il Real si è affidato ad Ancelotti, sinonimo di successo tanto in Italia quanto nel resto del continente. L'Atletico Madrid, fuori dal giro che conta da circa vent'anni, torna ad essere uno squadrone. Simeone plasma i Colchoneros per vincere qualcosa d'importante, dopo essersi bagnato le labbra con Europa League e Supercup.

Si arriva a fine stagione ed il Barcelona è in corsa su tutti i fronti. In Champions l'urna di Nyon mette sulla strada del Tata Martino il connazionale Diego Pablo. L'Atletico spaventa i campioni al Camp Nou; li annichilisce al Calderon. Passano pochi giorni e gli uomini di Martino perdono a Granada, lasciando sul campo andaluso una buona porzione di campionato.
In settimana la goccia che fa traboccare il vaso. Il Barça affronta gli eterni rivali del Real Madrid nella finale della Copa del Rey, un trofeo che dal nome dovrebbe appartenere ai castigliani. Pronti-via è l'argentino Di Maria a portare avanti i madrileni, trafiggendo il solito indecoroso Pinto. Bartra pareggia a metà ripresa, prima di farsi ridicolizzare in accellerazione da Bale, per il goal del definitivo successo blanco.

A questo punto la rabbia dei tifosi deflagra in tutto il suo furore. I tifosi aspettano la squadra e sfogano la frustrazione con insulti e frasi ingrate. Lo stesso Messi, un attaccante a dir poco formidabile, non viene risparmiato. L'insulto più carino è quello di "tenere più alla grana che alla maglia". La vera domanda, però, è come sia possibile tutto questo.
Mi sembra che si stia su un altro pianeta, perchè gli unici mercenari, secondo me, sono i tifosi. Sono loro che tengono più ai successi che alla maglia, festeggiando i trofei e la gloria, per poi dimenticarsi tutto rapidamente. E' nei momenti difficili che i tifosi devono stare accanto alla squadra; è dopo le grandi sconfitte che il vero calciofilo applaude i propri beniamini. Soprattutto se nei dieci anni precedenti quegli stessi giocatori hanno regalato qualcosa come sei campionati e tre Champions League, solo per citare le vittorie più prestigiose.
Ma tant'è..l'ingratitudine sta di casa sulla RamblaA pagare, come sempre, sarà l'allenatore; ma la società dovrebbe invece dare un forte messaggio ai tifosi, perchè se si mettono a contestare i supporters del Barça, significa che qualcosa, nel calcio, davvero non funziona.

14 aprile 2014

Baggio, Batistuta, Baggio, Del Piero... once upon a time Serie A

Io sono cresciuto bene, calcisticamente viziato, lo so. Baggio, Del Piero, Totti, Zola...e ancora Batistuta, Ronaldo, Zidane, Rui Costa.. la Serie A era piena zeppa di campioni. Calciatori formidabili e uomini tutto d'un pezzo. Certo, si potrà dire che Totti ha avuto cadute di stile; che Zidane ha avuto scatti d'ira incontrollabili; che Ronaldo, ai tempi dell'Inter, non sia stato un esempio di professionalità. Ma nulla a che vedere con la Serie A odierna, troppo inquinata da ragazzini viziati e campioni gonfiati.

Se guardiamo le rose delle nostre squadre, infatti, non vedo campioni veri. Ci sono davvero pochi campioni nel nostro campionato, specie nei reparti avanzati. Tevez, Pepito Rossi, Higuain e tanti giovani in rampa di lancio. Fra questi non considero, in tutta onestà, nè Balotelli nè Icardi.

Mario Balotelli, seppure l'anagrafe sia dalla sua, è un giocatore ormai fatto e finito. Ha ragione Seedorf quando dice che un campione non è, e secondo me non lo diventerà. Ha grandi numeri, li aveva anche cinque anni fa, ma una testa inadatta ad essere il numero uno. Passa troppo tempo ad occuparsi di aspetti extracalcistici, dalle macchine al gossip passando per sterili polemiche con la stampa o via Twitter. Dei campioni veri, quelli citati a inizio pezzo, nemmeno una traccia.

Icardi, poi, è l'ultimo stadio dell'intelletto umano, così in basso da meritare uno studio sociologico. Il talento c'è, lo ha dimostrato lo scorso anno e lo sta facendo quest'anno. Esattamente come Balotelli è esploso molto giovane, ma si è dimostrato altrettanto precoce nel fare cazzate. Non parlo dell'orecchio teso verso i tifosi della Sampdoria, quello ci può stare. Nel mondo etico in cui non si devono aizzare i tifosi è un gesto deplorevole, ma capisco che una persona, insultato di continuo, risponda sul campo con un gesto del genere.
Ho giocato a calcio e so che queste cose, nel pathos del momento, possono capitare.
Non è invece ammissibile tutto il contorno, con quella squallida vicenda che vede protagonista lui, Maxi Lopez e quell'altra, di cui non mi sforzo nemmeno di fare il nome. Sono fatti loro, possono fare e disfare ciò che vogliono nella loro intimità (posto che con tre bambini di mezzo un pochino più di classe ci vorrebbe). Ma, appunto, nella loro intimità. Il ragazzino e la compagna, invece, vanno avanti da mesi a bombardare la rete con le loro storielle, di cui francamente faremmo tutti a meno. I giornali le riprendono, causa morbosità italica, ma ve lo dico chiaro e tondo: siete ridicoli e di un tale cattivo gusto che non vale la pena spendere altre parole o incorporare dei tweet che, sul mio blog, non voglio.
Non è un caso se Diego Maradona, non proprio l'ultimo fesso arrivato, abbia detto: "Per me Icardi è un traditore. Va a casa di Maxi Lopez, gioca a fare l'amico e poi gli frega la donna, questo è tradimento. Ai nostri tempi se qualcuno osava guardare la donna di un compagno, nello spogliatoio ci mettevamo a turno per prenderlo a pugni". E non credo sia nemmeno un caso che il Barcelona, la cantera migliore d'Europa negli ultimi dieci anni, lo abbia mandato via senza mai guardarsi alle spalle. 

Insomma, rimpiango i tempi in cui la domenica potevo vedere Batistuta che la insaccava su pregevole assist di Rui Costa; in cui Ronaldo faceva il Fenomeno e Baggio ci deliziava con sontuose giocate. Le domeniche in cui lo speaker acclamava un goal di Del Piero e l'altro di Trezeguet; in cui Beppe Singori ed Hernan Crespo accendevano il derby della via Emilia, oggi in preda alle "sfuriate" di Cristaldo e Palladino. Rimpiango le testate di Bierhoff e i dribbling di Marcio Amoroso, consapevole che oggi, a parte qualche sprazzo di luce targato Rossi, Tevez o Higuain, non ne vedrò. E allora largo ai giovani, ai Destro e agli Immobile, ma anche ai Berardi, i Bernardeschi e i Paloschi. Ci domandiamo come gli altri campionati, Germania e Portogallo su tutti, ci abbiano sopravanzato nel ranking europeo. La risposta è semplice, sono i giovani. Chi punta su di loro, alla fine, cresce.

7 aprile 2014

Storie di calcio: Leonardo, il giramondo dai piedi fatati

Leonardo Nascimento de Araujo, meglio noto come Leonardo, è stato un calciatore fantastico. Amato in ogni squadra in cui è stato, Leonardo è nato nel Vasco da Gama ma è esploso nel Flamengo, prima di dispensare poi calcio nel San Paolo, nel Valencia, nel Kashima Antlers e nel Paris Saint Germain, prima di arrivare in Italia, al Milan.
Una carriera fatta di grandi club, grandi giocate ed una classe impareggiabile, dentro e fuori dal campo. Perno della Seleçao per quasi dieci anni, Leonardo è stato sicuramente uno dei calciatori più intelligenti degli ultimi vent'anni.

Nato a Niterói il 5 settembre 1969, da piccolo Leonardo tira i suoi primi calcio nel Rio Cricket, per andare poi nelle giovanili del Vasco da Gama, a Rio de Janeiro. Per qualche mese abbandona il pallone per studiare, l unica cosa che Leonardo ritiene più importante del calcio. Si iscrive alla facoltà di ingegneria di Rio de Janeiro, ma a diciotto anni viene chiamato dal Flamengo. Così, mentre pensa di diventare un bravo studente, come il fratello e la sorella maggiori, Leonardo gioca insieme a Zico e Jorginho, non proprio gli ultimi due arrivati.
"Il mio primo scudetto l'ho vinto a 17 anni, nel 1987 con il Flamengo - racconta -. Eravamo partiti malissimo, con una sconfitta alla prima partita contro il San Paolo. Ma abbiamo rialzato subito la testa: poi abbiamo vinto tutte le partite. Pensate che giocavo con Zico, Muller, Careca, Silas, Andrade. In piu' Zinho, Edinho, Leandro, Bebeto, Jorginho. Tutti nazionali conosciuti dappertutto. Che squadra!". Un esordio da predestinato, tanto da scorllarsi di dosso il soprannome di "Ratinho" che i giovani coetanei verdeoro gli avevano affibiato.

Leonardo diventa, in men che non si dica, un'icona. Passato dal Flamengo al San Paolo, Leonardo gioca due grandi stagioni. Con il San Paolo si fa notare per la sua duttilità, facendo un po' di tutto: laterale, difensore, uomo di fascia, attaccante. "Il bello del calcio è anche questo: conoscere, scoprire, vivere ruoli ed esperienze". Le sue giocate, i suoi goal, non passano inosservati. E' il Valencia di Hiddink a portalo in Europa, dove non s'imporrà di primo acchito. In Spagna sono gli anni del Barcellona di Cruijff, troppo forte per le altre. Leo scopre però un nuovo campionato e nuovo modo di giocare, pur non vincendo nulla. Due buone stagioni lo riportano, però, in Brasile, tanto per cambiare al San Paolo. Qui torna a lottare ai massimi livelli, quello che il Valencia non poteva raggiungere. Il destino lo porta a giocare la finale di Coppa Intercontinentale a Tokyo contro il Milan di Fabio Capello. "Quella sera abbiamo perso, ma almeno abbiamo scoperto un talento", la frase di Galliani nel giorno della presentazione al Milan, che la dice lunga sulle qualità del centrocampista rossonero.

Dopo il successo in Intercontinentale, l'insospettabile stop. Leo cede alle lusinghe dell'oriente, accettando la faraonica offerta del Kashima in Giappone. Qui gioca ad occhi chiusi, spingendo il movimento calcistico nipponico ai massimi livelli. Numero 10 sulle spalle e sorriso d'ordinanza, Leonardo è il fiore all'occhiello di un campionato tecnicamente povero. La voglia di tornare in Europa, nel calcio che conta, però è tanta. Ecco allora riecheggiare forti e chiare le sirene del il Paris Saint Germain. Nella relativa tranquillità del campionato francese costruisce un altro po' della sua notorietà, preparandosi a spiccare il volo. Con la maglia dei parigini incontra un attaccante consumato, che in qualche modo segnerà il suo destino: Marco Simone.
Si vocifera sia infatti stato l'ex centravanti del Diavolo a suggerire a Galliani di investire forte sul brasiliano.



"Ora è un bene che parta e non solo per me, anche per il Psg". Il commiato di Leo è commisurato alla gioia di Capello, che ha fatto carte false per averlo. Leonardo, nelle intenzioni del tecnico di Pieris, rappresenta l'uomo capace di dare il cambio di velocità alla manovra. Il motore del Milan ha altri cavalli che garantiscono qualità, come Albertini, Boban oppure Maini; da Leo ci si aspetta il guizzo imprevedibile. Per gran parte della stagione l'idea non arriva, il guizzo è strozzato. I detrattori parlano di pessimo investimento, alla stregua di Ba e Bogarde, ma tra i motivi del basso rendimento di Leonardo c'è una fastidiosa pubalgia. "Se non gioco bene non cerco di giustificarmi e di trovare scuse con i dolori alle gambe", sono le parole di chi sa di avere le capacità di riscattarsi. E così, sotto la guida di Zaccheroni, è proprio Leo a guidare il Diavolo al tricolore, riagganciando la Lazio in una corsa Scudetto incredibile. Dodici reti, due nel derby ed una nel match scudetto con la Lazio di Eriksson, sono il marchio tricolore del brasiliano giramondo.

"È giusto che vada via, dopo quattro anni molto positivi. Sono contento di tutta la mia esperienza e per tutto quello che ho imparato. Il Milan deve cambiare, deve prendere giocatori più giovani, è una cosa normalissima". Nel 2001 saluta Milano e torna in patria, ma il suo non sarà un addio nè al Diavolo nè alla città, dove tornerà sotto altre vesti.

4 aprile 2014

Il calcio dei tweet: Moscagol adotta un tifoso e ci insegna a sorridere

Ci sono calciatori che sono grandi per le proprie qualità sportive; altri che diventano personaggi mediatici. Questo è il caso di Davide Moscardelli, ormai uno dei personaggi di punta su Twitter.

La simpatia e la goliardia di "Moscagol" stanno dilagando in Italia, tanto da aver fatto diventare Moscardelli uno dei calciatori più amati e conosciuti dello stivale. Mosca, da par suo, ha sempre lodevoli e simpatiche iniziative. L'ultima in ordine cronologico mi ha fatto davvero ridere, e spero susciterà in voi lettori lo stesso sorriso che ho fatto io quando ho visto questo bel video.



Si sprecano tantissime parole su quanto sia importante avvicinare i giovani ad un calcio goliardico, pulito. Moscardelli è uno dei pochi ad aver capito la giusta tecnica per farlo, aprendo (spero) la strada ad una nuova cultura del calcio e dello sport. Non me ne voglia Davide se dico che è più simpatico e personaggio che non campione in campo, ma sono sicuro che lo capirà anche lui. Autoironia, sorriso sulle labbra e tanta tanta gioia sono le carte che il movimento calcistico deve giocarsi. Grazie a personaggi come Moscardelli, forse, il calcio sarà uno sport migliore.



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