Esperto di Calcio

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29 maggio 2014

Storie di calcio: merci monsieur Zidane

Non penso di aver mai visto nessuno con la sua classe. Certo, ci sono stati campioni come Maradona e Pelè, George Best e Johan Crujiff, ma nessuno di loro appartiene davvero alla mia epoca. Diego, o come è giusto chiamarlo "El Dies", l'ho appena sfiorato. Ho fatto in tempo a vederlo buttarci fuori da un Mondiale, urlare "hijo de puta" durante il nostro inno ed incantare Napoli. Ma ero piccolo, troppo per capire cosa effettivamente fosse il calcio. Il mio ricordo più nitido di Diego è quel goal alla Grecia, una gemma che rimarrà per sempre scolpita nella mia mente.
Per tutte queste ragioni il giocatore con più classe che io abbia mai visto viene dalla Francia. Avrei potuto nominare Roberto Baggio e Alessandro Del Piero, che per motivi diversi hanno rappresentato delle vere istituzioni con il numero 10 sulle spalle. Roberto è stato però il prototipo dell'attaccante perfetto, capace di giocate sopraffine ed un'innata freddezza sotto porta. Alessandro è stato il capitano, il condottiero. Ma il giocatore di maggiore eleganza risponde al nome di Zinedine Zidane.

Potremmo spendere fiumi di parole sulla sua infanzia. In tanti hanno fatto congetture continue sulle sue origini berbero algerine; o sulla sua infanzia al porto di Marsiglia. Io non penso che sia il caso, è importante solo sapere dove ha sviluppato la sua classe e dove ha forgiato il suo carattere, fondamentale nel corso della sua carriera.
Zidane aveva un modo ci toccare il pallone tutto suo. Accarezzava la sfera con il destro o il mancino con una delicatezza naturale, a tratti disumana. Zizou faceva con i piedi quello che una persona normale riesce, forse, a fare con le mani. E soprattutto non è mai stato un narcisista in campo. Spesso i grandi campioni si piacciono, cercano di fare i "numeri" per il puro gusto di farli, per far vedere la propria forza. Il primo è stato probabilmente Edgar Davids, suo compagno ai tempi della Juventus; oggi sono Cristiano Ronaldo e Neymar l'emblema del futbol bailado. Zidane non è mai stato così. Ha sempre incantato in campo, ma non ha mai ecceduto per il puro gusto di farlo, anche se avrebbe potuto. Eccome se avrebbe potuto.

Nato da una coppia di algerini musulmani, il suo vero nome è Zineddin Lyazid Zidan, ovvero "bellezza della religione". Cresciuto nel mito di Francescoli, Zidane ha da sempre combinato le sue grandi passioni: il calcio e il judo. Per le strade di Marsiglia affina la tecnica e perfeziona il controllo di palla, fino a farlo diventare perfetto. I pari età non riescono a stargli dietro, Zidane combina una classe pazzesca ad un fisico imponente. I primi ad accorgersene sono gli osservatori del Cannes, che vanno dal giovane fantasista e lo blindano con un contratto da professionista. Zidane aveva appena 15 anni.
Il numero 10 ha talento, se ne sono accorti tutti. Ad allenare il Cannes c'è un pirenaico, Guy Lacombe. E' stato un centravanti di buon livello, i suoi titoli li ha vinti, e soprattutto sa riconoscere un talento. E Zidane rientra a pieno titolo in questa categoria.
Gli bastano pochi mesi per convincere tutti che lui, nel settore giovanile, è sprecato. A 16 anni esordisce in Ligue 1, giocando 10 minuti contro il Nantes. Di lì in avanti è una escalation continua, fino a trascinare i biancorossi in Coppa Uefa, nel 1991.
Zizou, come lo chiamano ormai tutti in Francia, non è più una meteora. Il calcio transalpino si è accorto di lui. A dargli l'occasione giusta, nel 1992, è un suo concittadino, Rolland Courbis. E' lui a convincere i dirigenti del Bordeaux ad acquistarlo. La scelta si rivelerà una delle più azzeccate di sempre, sia dal punto di vista tecnico che economico.
Con la maglia dei girondini Zidane cresce di partita in partita. Si trasforma da giocatore bello in centrocampista universale, capace di ricoprire tutte le zone del campo. Certo, nella trequarti offensiva è un maestro, un vero asso. Insieme a Dugarry e Lizarazu forma quello che ancora oggi viene ricordato in Francia come "il triangolo di Bordeaux", tre giocatori meravigliosi che convincono gli osservatori di mezzo mondo ad andare allo stadio Chaban-Delmas. Qui si trovano gli osservatori di Milan e Juventus. I rossoneri scelgono Dugarry, che in Italia fallirà decisamente; i bianconeri puntano sul franco-algerino.

La Juventus lo acquista nel 1996 per una cifra importante, 7,5 miliardi di lire. Arriva a Torino in punta di piedi, sceglie la maglia numero 21 e inizia l'inserimento. Le difficoltà iniziali portano i media a bocciare il suo acquisto, ma nel giro di qualche settimana Zidane zittisce tutti. Tira fuori dal cilindro giocate impossibili anche solo da pensare per giocatori normali, incanta il Delle Alpi e l'Italia intera con la sua visione di gioco e i suoi tocchi delicati.
Più gioca e più cresce come uomo e come giocatore. I suoi dribbling sono eccellenti, ancor più del suo controllo di palla. Ripropone con disarmante regolarità un movimento, quello che in Italia viene chiamato "veronica" e che il cagliaritano Gianfranco Zola ha mostrato a tutti. Zidane fa lo stesso, ma con più classe ancora ed una struttura fisica diversa. Questo ragazzo di 185 centimetri danza quasi sul pallone, le sue Adidas Predator sembrano un prolungamento della sua pelle, del suo piede.
La fama con la maglia della Juventus va di pari passo con i successi del club e della Nazionale. Lippi e Jacquet non si sognano neppure di lasciarlo fuori, perdonandogli anche qualche scatto d'ira. Di base Zidane è un giocatore corretto, prende tante botte e si fa rispettare. Difficile vedere un suo gesto antisportivo o violento, ma di tanto in tanto "gli parte l'embolo". Ai Mondiali del '98 viene squalificato per aver camminato su di un saudita, in risposta ad una provocazione subita. In Champions, contro l'Amburgo, colpisce con una testata un avversario, rompendogli lo zigomo. Zidane è sempre stato così, un fuoriclasse in campo ed un carattere forte. Non è uno che alza la voce o fa scenate, ma ogni tanto commette un errore. I suoi allenatori lo capiscono, lo conoscono, e lo perdonano. Lui li ripaga con successi e gloria.
Con la Juve vince praticamente tutto, sfiorando per due volte la Champions League che lo vedrà grande protagonista con la maglia merengue. Con la Francia alza al cielo di Parigi la Coppa del Mondo; due anni più tardi l'Europeo, in una finale thriller con l'Italia di Zoff.



Nel 2005 il suo tempo a Torino è finito. Tante, troppe persone hanno additato la responsabilità sulla moglie, spagnola d'origine e "amante del mare". A Madrid e, a meno di strani coinvolgimenti geografici, nella capitale iberica il mare non c'è. Con la casacca blanca giocano però campioni assoluti, di livello mondiale. Zizou vuole unirsi a loro per dare l'assalto alla Champions League.
La leggenda vuole che a fine campionato Zidane sia andato da Moggi e gli abbia detto: "voglio andar via, se volete rimango ancora un anno ma poi vado via alle mie condizioni". Moggi gli ha ovviamente risposto, "no, vai via ora alle nostre". Florentino Perez sborsa 150 miliardi di lire per portarlo a Madrid e dargli la casacca numero 5, un numero inedito per un centrocampista favoloso. Zidane lo nobiliterà non poco.
L'amore fra il pubblico del Bernabeu ed il marsigliese è istantaneo. Un colpo di fulmine strega i tifosi merengue quando vedono Zizou accarezzare il pallone.
Al primo anno con il Real, però, la maledizione Champions sembra continuare. In semifinale è la Juventus del vecchio maestro Lippi e degli amici Del Piero e Davids ad eliminarlo. "Zidane l'amore è cieco" scrivono i tifosi, con un chiaro e inequivocabile riferimento a Pavel Nedved. Zidane segna al Delle Alpi il goal della speranza, ma torna a centrocampo con la testa bassa. Evidentemente l'amore per la Signora non è del tutto svanito.
I grandi campioni, però, scrivono la storia. E così, in una bella sera primaverile di Glasgow, Zidane ha per sempre iscritto il suo nome all'albo delle leggende. Non lo ha fatto tanto alzando la Coppa, ma realizzando una rete meravigliosa, da fuoriclasse assoluto. Palla alta, arcuata, praticamente morta. Ha saputo coordinarsi da fermo, inarcare la schiena, preparare il tronco e con la gamba dare una frustata al pallone. Non poteva che insaccarsi alle spalle del portiere, sotto la traversa. Non poteva che essere la rete decisiva.



Una sua prodezza avrebbe potuto decidere anche la finale del Mondiale 2006. Già, quello a cui non doveva partecipare. Nel 2005 aveva detto addio alla Francia, ma a furor di popolo è stato richiamato per la rassegna tedesca. A 34 anni Zidane è stato ancora il migliore della Francia, indossando la fascia di capitano e risultando decisivo.
In finale la Francia soffre, soprattutto nel primo tempo. Dopo il vantaggio di Malouda e il pari di Materazzi, siamo noi ad avere le migliori occasioni. Thuram fatica a tenere lo strapotere fisico di Toni; serve qualcuno di classe e carisma per risvegliare i transalpini. Herny mette la velocità e la fisicità, Zidane il carisma e la testa. Ai supplementari soprattutto. Nel corso del primo tempo supplementare sfugge a Gattuso e si avventa come un falco su un cross proveniente da destra. L'incornata di Zizou è perentoria, il pallone si stacca dalla sua testa come una pietra da una fionda. Buffon risponde da campione, e pagherei oro per sapere cos'ha urlato Zizou in un misto di francese e algerino dopo la parata di Gigi.
Nel secondo tempo l'episodio cruciale, quello più dibattuto della sua intera carriera. Il gesto è violento, inaccettabile. Il rosso è sacrosanto, la reazione di Domenech è più ridicola del suo modo di allenare e gestire lo spogliatoio, i francesi ai Mondiali 2010 se ne accorgeranno a loro spese.
Si sono spesi fiumi di parole sul perchè di quella reazione, ma a me non interessa. Io voglio ricordare lo Zidane giocatore, quello che in campo si muoveva con la grazia di un cigno e la cattiveria agonistica dello scorpione. La sua immagine mentre esce dal campo, accanto alla coppa del mondo, è una di quelle che hanno segnato la soria del calcio. Da quel momento in avanti salutava uno dei dieci calciatori più forti di tutti i tempi, Zinedine Zidane.

26 maggio 2014

Storie di calcio: il Maradona del Golfo, Saeed Al-Owairan

La vetrina mondiale regala da sempre emozioni e gesti tecnici di raro valore. Impossibile dimenticare alcuni gesti tecnici, che segnano per sempre la storia di questo sport.
L'esempio più eclatante, ovviamente, è quel fantastico goal di Maradona a Messico '86, nel giorno in cui con una doppietta stese l'Inghilterra. Se il primo passa alla storia per la "mano de Dìos"; il secondo resta nell'immaginario collettivo il goal più bello di sempre.
El Dies, come lo chiamavano in patria, prende palla, salta tutti e deposita in rete. 12 secondi di corsa e potenza; 11 tocchi palla, tutti rigorosamente di sinistro.



Il Mondiale non è solo Maradona, può portare agli onori della cronaca anche i meno famosi. La storia più singolare e interessante è quella del saudita Saeed Al-Owairan (سعيد العويران), veloce centravanti mattatore del Belgio a Usa '94.
L'Arabia Saudita, arrivata alla rassegna statunitense con poche velleità, fu capace di stupire tutti. Una sconfitta di misura con l'Olanda, maturata a pochi minuti dal termine; un successo con il Marocco, giusto per arrivare a giocarsela con il Belgio. I Diavoli Rossi avevano una formazione decisamente più forte, con l'esperto Preud'homme in porta; Albert in difesa; l'attuale commissario tecnico Marc Wilmots a centrocampo; e davanti la coppia dei sogni: Vincenzo Scifo e Luc Nilis.
Proprio Luc Nilis meriterebbe una storia tutta sua, e presto gliela dedicherò. Per ora vi basti sapere che Ronaldo, non proprio l'ultimo arrivato, lo ha definito uno dei migliori con cui abbia mai giocato.



Eppure il Belgio, in quella partita, soccomberà. A guidare i sauditi non ci sono campioni, ma la leggenda vuole che il re Fahd avesse avuto grandi premonizioni. Non so quanto di vero ci sia, ma per me contano i fatti, i goal. E nel torrido pomeriggio di Washington c'è un giocatore solo ad illuminare la scena. Si chiama Saeed Al-Owairan, il Maradona del Golfo.
Cresciuto calcisticamente nell'Al-Shabab, Owairan non è stato baciato da un talento cristallino, ma ha una cosa più degli altri: la corsa. Sa che se fai grandi cose al Mondiale, nessuno ti dimenticherà. Tanto meno in Arabia Saudita, dove puoi diventare un eroe nazionale.
Mercoledì 29 Giugno 1994, Saeed vuole regalarsi la gloria eterna. Nella decisiva sfida con il Belgio, al 5' di gioco, Al-Owairan entra per sempre nella storia del calcio. Numero 10 sulle spalle e corsa fluida, il saudita prende palla sulla sua trequarti difensiva. I compagni son quasi tutti dietro di lui, davanti a sè un muro di difensori fiamminghi. Ma non importa, si vive una volta sola. Scatto bruciante a incunearsi in mezzo ai due centrocampisti belgi, che non commettono fallo. Finta verso sinistra e cade un difensore; piccolo rimpallo a liberarsi dell'ultimo baluardo e poi davanti al portiere. Pressato da Albert e con Preud'homme in uscita, Al-Owairan ha la forza di lasciarsi cadere e colpire di collo. Un tiro forte, come nessuno s'immaginerebbe dopo 65 metri di corsa forsennata. La palla parte veloce, forte, e s'insacca sotto la traversa. E' un goal fantastico, unico, a tratti inimmaginabile.



L'Arabia Saudita si qualifica, è un momento storico per il calcio saudita e per il movimento asiatico, dopo il falso dentista coreano (1966, al secolo Pak Doo Ik) un nuovo eroe.
Carichi come delle molle Al-Owairan e compagni giocano contro la Svezia. Il divario tecnico-tattico è abissale, i nordici vincono facile 1-3 con la doppietta di Kennett Andersson.
Ma il mondiale per Al-Owairan era già vinto, e ha coinciso con un futuro da nababbo. Tornato in patria il giocatore saudita diventa l'icona del movimento calcistico arabo, con onori e oneri. Se il re gli concede grandi tributi e immense ricchezze, allo stesso tempo Saeed non può lasciare il paese. Ma non puoi domare un cavallo imbizzarrito, e così soldi e potere danno alla testa al Maradona saudita. Proprio come Diego, Saeed Al-Owairan inizia una vita dedita ai vizi e ai bagordi, spesso in compagnia di procaci fanciulle a pagamento.
Scappato dal paese, viene fermato al Cairo all’uscita di un locale notturno, dopo una nottata di follie con due ragazze russe, il Maradona del Golfo venne arrestato e portato in prigione, nella sua Arabia Saudita. Tutto d'un tratto si trovò nella polvere esattamente come Dieguito, il mito a cui era stato tanto enfaticamente accostato dai suoi ammiratori calcistici. Il talento, la fama improvvisa e l’adorazione; poi il denaro, l’invidia, la caduta e la prigione. Tutta colpa di un gol strepitoso.
"Quel gol per me si rivelò essere un’arma a doppio taglio - ha raccontato pochi anni fa Saeed al New York Times - e, se da un lato fu meraviglioso, dall’altro fu tremendo perché finii costantemente sotto la luce dei riflettori".
La condanna per il misfatto è tremenda, quattro anni di reclusione. Ma Al-Owairan ha una buona stella, il figlio del re. Le sue pressioni inducono il padre a scarcerare il numero 10 dopo un solo anno di carcere, anche in previsione dei Mondiali francesi del '98. Al-Owairan però non è più lo stesso, consumato dalla fama e dal successo dice addio al calcio nel 2001, quattro anni dopo il vero Dies.

23 maggio 2014

Brasile 2014: rinunciare a Verratti sarebbe una follia

"Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore.. o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività, significa dare libero corso alla propria ispirazione" - Bob Marley.

La frase del celebre cantante e musicista giamaicano racchiude appieno lo spirito del Mondiale, una competizione incredibile, unica. Insieme all'Olimpiade è l'unica manifestazione sportiva in grado di fermare il mondo, di far sognare a tutti i bambini di indossare la casacca della propria Nazionale ed ascoltare il boato dello stadio in tutto il suo fragore. Questa è la potenza del calcio, sport spesso sottovalutato e troppe volte vituperato, che ha nel suo codice genetico un irrefrenabile impulso di aggregazione sociale.
Nella sua essenza, però, è un gioco piuttosto semplice. Di solito non mi trovo d'accordo con la leggenda olandese Johan Cruijff, ma credo sia riuscito in pochissime parole a descrivere questo sport.
"Il calcio consiste fondamentalmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare. Se non la puoi controllare, tantomeno la puoi passare".
Tradotto, in campo devono andare i campioni, quelli capaci di fare la differenza con la testa e con i piedi. Troppo spesso negli ultimi anni ci siamo fatti sedurre da caratteristiche quali fisico e atletismo a discapito di tecnica e visione di gioco. Un grande calciatore dev'essere una perfetta fusione fra queste caratteristiche. Non bastano tecnica e idee, ma tanto meno basteranno muscoli d'acciaio e polmoni indomabili. 

Si fa un gran parlare delle scelte di Prandelli in vista del Mondiale brasiliano. E' inevitabile che sia così, l'Italia è il paese dei santi, dei poeti, dei navigatori..ma soprattutto degli allenatori. Ognuno di noi, nel suo intimo o con gli amici, stila i propri convocati; inevitabilmente il risultato non è unanime. Mai.
C'è però qualcosa che non mi torna. Leggendo i giornali ed ascoltando i dibattiti alla radio, si vocifera troppo spesso che uno degli esclusi dalla spedizione azzurra possa essere Verratti. Quando l'ho letto non ci volevo credere, una scelta del genere sconfesserebbe completamente la frase del vecchio Johan. Se c'è uno che in Italia sa stoppare e passare un pallone, beh questi è proprio Verratti.
Storicamente siamo piuttosto avvezzi nel fare scelte discutibili, dai famosi "sei minuti di Rivera" all'esclusione di Roberto Baggio ad Euro '96 abbiamo dato dimostrazione di avere talvolta le idee confuse. Ecco perchè spero davvero che Prandelli non commetta un errore così marchiano, così stupido. A centrocampo, giusto per circoscrivere il discorso, non navighiamo nell'abbondanza. Pirlo, De Rossi e Marchisio sono intoccabili, dubito qualcuno possa replicare in tal senso. Andrea e Daniele, oltre ad averci portato sul tetto del mondo, rappresentano il nostro miglior regista ed il più efficace schermo protettivo davanti alla difesa. Tolti Vidal e Pogba, in Italia non esistono centrocampisti più forti di loro. Marchisio, vittima negli anni della sua duttilità tattica, è un mediano di livello mondiale e, dulcis in fundo, è in una forma psico-fisica pazzesca.
Ma gli altri, ne vogliamo parlare? Prandelli ha chiamato Aquilani, Parolo, Candreva, Montolivo, Romulo, Thiago Motta e ovviamente Verratti. Fra tutti questi volete forse dirmi che c'è davvero qualcuno che pensa che il sacrificato debba essere il pescarese classe '92? Non ci voglio né credere e né pensare.
Candreva a me piace tantissimo, non è un mediano ma io non vi rinuncerei mai. Corre, ha piede, sa calciare punizioni e rigori..insomma, lui è uno che porterei sempre.
Thiago Motta è forse l'unico, oltre a De Rossi, ad avere fisico ed un colpo di testa formidabile. Nelle partite fisiche uno così ci può servire.
Montolivo rimane per me un grande mistero. Giocatore con mezzi tecnici notevoli quand'era a Bergamo, non ha mai, e sottolineo mai, fatto il salto di qualità. Si è riciclato in un centrocampista tutto fare con il limite di non sapere impostare come Pirlo, di rubare palloni come De Rossi o inserirsi come Marchisio. Inoltre è schiavo del suo passo lento e compassato, una roba da far cadere le ginocchia.
Aquilani, sfortuna mia, l'ho visto giocare un anno intero. Altro grande talento sprecato, perchè non ha saputo maturare. Anche lui è rimasto un ibrido, tatticamente difficile da capire. Nella fiorentina gioca mezz'ala, ma le sue lacune sono compensate dal cervello di quel gran giocatore di Borja Valero.
Parolo è uno di quelli che si è fatto da solo. Ha fatto la gavetta e si è ritagliano un ruolo chiaro a suon di prestazioni convincenti. Donadoni lo impiega come mezz'ala con licenza d'inserirsi, potrebbe francamente essere una valida alternativa a Marchisio, a patto che Prandelli abbia in mente di lasciare i centrocampisti liberi di inserirsi.
Romulo è un giocatore modesto. Mi ha dato una consistitissima mano al fantacalcio e mi sento un po' in colpa a dirlo, ma non è all'altezza. E' uno generoso, ha quattro polmoni e gioca dove gli dici di stare. Ma suvvia, possiamo davvero rinunciare a uno come Marco Verratti per lui?

Da qualche giorno mi domando se sono io che ho i paraocchi o se questa possibile scelta sia davvero folle. Forse con un po' di presunzione, penso di aver ragione io. Se guardiamo le altre grandi scopriamo che nessuno sacrifica la qualità per la quantità.
La Germania si porta in un colpo solo Kroos, Gotze, Reus, Draxler e Ozil. Low non ci pensa neppure a lasciare a casa giocatori del genere.
La Spagna ha solo centrocampisti di grandissimo piede, il metodista è Busquets, non proprio Romulo o Montolivo.
Van Gaal ha convocato i giovani Clasie e Vilenha e gli esperti Van der Vaart e Sneijder proprio perchè danno del tu al pallone.
Persino i conservatori inglesi hanno fatto uno strappo alla regola ed arruolato Lallana, giocatore di scarsa esperienza internazionale ma grande piede.
Se noi dovessimo rinunciare ad uno dei nostri migliori talenti del presente e del futuro, francamente non lo capirei proprio.

22 maggio 2014

Brasile 2014: alla scoperta delle 32 protagoniste del Mundial

Ci siamo quasi, il Mondiale sta per partire. Per anni, quand'ero bambino, aspettavo con ansia e impazienza questo momento. Ripensandoci oggi, la Coppa del Mondo è davvero un evento unico. Unisce i popoli e rende il calcio quella meravigliosa festa che dovrebbe essere ogni fine settimana.
Io non sono mai stato un fan dei mondiali extraeuropei, vuoi per il fuso orario; vuoi per il fascino che gli stadi europei suscitano in me. Tuttavia giocare in paesi come il Brasile o l'Argentina, non può che essere uno stimolo a far bene, a regalare fortissime emozioni.
Andiamo quindi a conoscere le squadre che a Brasile 2014 cercheranno di alzare la Coppa più pesante, prestigiosa e meravigliosa che ci sia.

Group A
Brazil: non può che essere la favorita numero uno. Ad ogni competizione Mondiale il Brasile arriva con i galloni del pronostico; figuriamoci giocando a casa.
I verdeoro hanno una squadra solida, ma meno forte rispetto ad alcune altre edizioni, specie in avanti. Strano ma vero, la difesa è di primissimo livello. Julio Cesar, anche se non più di primo pelo, garantisce affidabilità fra i pali. Thiago Silva è forse il più forte centrale del mondo, con David Luiz compone una cerniera molto forte; Dani Alves, Marcelo e Maicon li conosciamo tutti. Se pensate che Castan, Marquinhos e Miranda possono stare comodamente seduti in spiaggia, capite benissimo che la retroguardia sia in una botte di ferro.
In mezzo la solita immensa qualità, con i blues Oscar e Willian ad illuminare; mentre a Paulinho e Fernandinho viene chiesto di coprire e reimpostare l'azione.
In avanti Neymar ed Hulk sono una coppia di assoluto livello, non comparabile ai vari Romario, Ronaldo e Rivaldo, ma due che sarebbero convocati in qualsiasi nazione del mondo.

Croatia: come al solito una squadra solida e ben messa in campo dall'ex stella croata Nico Kovac.
Le stelle della squadra sono l'esperto estremo difensore Pletikosa; il terzino Darijo Srna e l'esperto Corluka. A centrocampo, come sempre, grandissima qualità. Pochi possono vantare gente come Luka Modric, Rakitic e l'interista Kovacic, che potrebbe vivere la sua consacrazione.
Davanti, insieme all'intoccabile Mandzukic, giocherà probabilmente l'esperto Ivica Olic con il giovane bomber della Dinamo Zagabria, Duje Čop, pronto a consacrarsi. Nessuno dei tre è Davor Suker, ma sono un attacco di valore.

Mexico: son lontani i tempi di Campos ed Hernandez, quando sullo sfondo della maglia messicana c'era la stele dei Maya. I messicani sono comunque una compagine solida ed equilibrata, solidi come le nazionali europee dietro ed estrose come i sudamericani in avanti.
La retroguardia è guidata per l'ultima volta (credo) dall'esperto Rafa Marquez e dall'esterno del Bayer Leverkusen, Andres Guardado.
La solidità di Herrera e Medina in mezzo è messa al servizio di un attacco interessante e pronto a stupire. La punta di diamante è il "Chicharito" Hernandez, supportato dal gioiellino del Villareal Giovani Dos Santos. Per il numero 10 il Mondiale brasiliano è l'ultima grande chiamata per salire sul treno del calcio che conta dopo una stagione formidabile con il Submarino Amarillo.

Cameroon: i leoni indomabili sono nuovamente qualificati e si presentano con una squadra di valore. La difesa si poggia su gente esperta, forgiata da anni nei campionati europei. Nkoulou, Chedjou e Assou-Ekotto sono garanzia di affidabilità ed esperienza.
In mezzo il sorprendente Stephane Mbia, fresco vincitore dell'Europa League con il Sevilla, e la forza di un riposato Song, poco impiegato in quel di Barcelona.
In avanti il "vecchio" Samuel Eto'o e l'esperto Pierre Achille Webò, fresco di successo in Superliga turca con la maglia del Fenerbache.


Group B
Spain: a mio modesto modo di vedere la squadra più forte, almeno sulla carta. In ogni posizione del campo scorgo solo campioni, anche fra gli esclusi.
Casillas è una garanzia, così come Ramos, Jordi Alba e Piquè; Azpilicueta e Carvajal sono il nuovo che avanza, ed è un gran bel ricambio generazionale.
A centrocampo Borja Valero, che sarebbe titolare quasi ovunque, non è nemmeno convocato. Xabi Alonso, Xavi, Iniesta, Busquets, Thiago Alcantara, Jesus Navas e Silva sono talmente forti da non aver bisogno di presentazioni.
Davanti nuovamente abbondanza con Diego Costa (se recupera dall'infortunio) favorito su Torres, Llorente e Negredo. A casa un giovane formidabile come Munain è la chiara espressione di forza della nazionale iberica.

Nederlhand: Van Gaal è una garanzia, l'Olanda sarà solida e compatta.
Largo ai giovani, la filosofia del santone orange è sempre la stessa e, per quel che vale, la condivido. Ecco allora che la retroguardia ha giovani di talento come Martins Indi, Janmaat e Veltman, tutti pronti a spiccare il volo.
A centrocampo l'esperienza di Van der Vaart, Sneijder e Robben al servizio della gioventù. Ci sono diversi grandi talenti nella rosa dei tulipani: Jordi Clasie, Georginio Wijnaldum e Tonny Trindade de Vilhena.
In avanti Van Gaal si affida all'esperienza dei vari Van Persie, Kuyt e Huntelaar; difficile pensare che i giovani Depay e Boetius possano scendere in campo.

Chile: un paese piccolo ma con grandi calciatori. Agli ordini del commissario tecnico Sampaoli diversi calciatori "italiani", che rappresentano il fiore all'occhiello della Nazionale.
In porta ed in difesa la solidità la fa da padrone, ma è dalla cintola in su che il Cile può fare la differenza. I bianconeri Isla e Vidal, il viola Mati Fernandez e l'atalantino Carmona offrono qualità e quantità al centro del campo.
In avanti l'ex Napoli Edu Vargas e, ovviamente, la vera stella della squadra: El Nino Maravilla, Alexis Sanchez.

Australia: senza ombra di dubbio la cenerentola del girone. Son lontani i tempi i cui i canguri potevano schierare calciatori affermati come Kewell e Viduka, tuttavia gli australiani restano sempre clienti "rognosi".
I giocatori più esperti sono senza dubbio il difensore Curtis Good; il centrocampista Mark Bresciano, oggettivamente lontano dall'ottimo calciatore che ricordano a Parma e Palermo; e in avanti Tim Cahill. A cercare consacrazione anche quel James Troisi di passaggio a Bergamo via Juventus.

Group C
Colombia: attenzione ai Cafeteros. Lo dico da mesi, i colombiani sono una formazione tutt'altro che materasso. Prova ne è il fatto che fosse una testa di serie, davanti a corazzate europee di blasone e successo.
Tanti volti noti in tutte le zone del campo, a iniziare dalla retroguardia: Zuniga, Yepes, Armero e Zapata.
A centrocampo iniziano i fuochi d'artificio con l'estro di James Rodriguez e Cuadrado e la potenza di Fredy Guarin, senza dimenticare Quintero del Porto.
In avanti la vera sorpresa è il recupero di Radamel Falcao, che se starà bene potrà portare i colombiani molto avanti. Anche senza di lui, però, ci sono Muriel e Jackson Martinez, due che danno del "tu" al pallone.

Greece: terzo mondiale della storia per i greci, che già ad Euro 2004 hanno stupito tutti. Difficile pensare ad una Grecia molto avanti nella competizione, ma sarà comunque un cliente ostico per tutti.
Dietro la solidità è garantita dal veronese Moras e dagli esperti Manolas, Papastathopoulos e Torosidis, fresco di secondo posto con la Roma di Garcia.
A centrocampo Maniatis ed il sempreverde Karagounis sono i senatori; la gioventù è rappresentata dalla nuova leva, con il genoano Feftatzidis, il bolognese Lazaros ed il granata Tachtsidis. Panagiotis Konè è invece l'uomo deputato di spaccare le difese con i suoi inserimenti, a supporto degli esperti Samaras e Mitroglou, fresco di retrocessione con il Fulham.

Cote d'Ivoire: gli elefanti arrivano al Mondiale con la formazione migliore di sempre. Agli ordini di Lamouchi ci sono giocatori di calibro mondiale, guidati come sempre da Didier Drogba, centravanti che avrebbe meritato forse il pallone d'oro.
Yaya Tourè è il giocatore in grado di cambiare gli equilibri della squadra, un fenomeno vero; Gervinho è il centravanti in grado di spaccare le difese e servire il numero 11. Il punto debole è senza dubbio la difesa, dove l'esperto Kolo Tourè ha visto forse troppe primavere per garantire la copertura adeguata.




Japan: Zaccheroni presenterà un Giappone solido, quadrato. Non ha nessun fenomeno, perchè lo stesso Honda ha palesato in Italia tutti i suoi limiti. Tuttavia gli undici nipponici venderanno cara la pelle e se la giocheranno per il secondo posto.
Le stelle della squadra sono appunto il rossonero Honda; il nerazzurro Nagatomo; ed il "diavolo rosso" Kagawa, in cerca di riscatto dopo una stagione a più ombre che luci in quel di Manchester.

Group D
Uruguay: agli ordini di quello che in patria è chiamato "il Maestro", Oscar Washington Tabarez, calciatori fantastici. Non è un caso se la celeste è testa di serie, poche nazioni al mondo possono vantare un attacco composto da Cavani e Suarez. Il piccolo paese sudamericano, però, non è solo attaccanti. In ogni reparto può schierare giocatori di calibro mondiale, come Godin, Caceres, Fucile e Maxi Pereira in difesa. A centrocampo gli "italiani" Perez, Gonzalez e Gargano sono i gregari per gli uomini di qualità, Cristian Rodriguez e l'ex Bologna Gaston Ramirez.

Italy: Prandelli arriva in Brasile con l'onere di confermare la finale di Euro2012, malamente persa contro l'immensa Spagna di Del Bosque. La nostra squadra non ha la qualità dei giorni migliori, ma possiede comunque importanti individualità. Buffon è la solita certezza; la difesa va invece ben definita. Se giocassimo a 3 scontato il trio bianconero Chiellini-Barzagli-Bonucci; a 4 bisognerebbe capire dove il c.t. intenda schierare Chiellini. Il centrocampo si articola per il terzo mondiale di fila intorno a Pirlo, con ai lati Marchisio e De Rossi. Da capire l'impiego di Montolivo, un fedelissimo di Prandelli che io francamente non amo per nulla. In avanti, infine, l'abbondanza. Cerci, Insigne e Candreva possono giocarsi il ruolo di spalla per Balotelli, a meno che Prandelli non decida di puntare su un attacco "pesante". In quel caso su le quotazioni di Destro e Immobile, opzione che personalmente avallerei subito.

England: pioggia di critiche per l'ex nerazzurro Hodgson, lasciare a casa due senatori come Cole e Terry non è facile. I britannici hanno nel portiere il solito tallone d'Achille, Joe Hart è lontano dall'eccellenza. La retroguardia è di valore, nonostante in mezzo io veda qualche lacuna: Cahill e Jones non sono dei razzi.
A centrocampo Lampard e Gerrard sono i vecchi leoni, ma mi stuzzica molto l'idea di vedere i giovani Sterling, Wilshere e Lallana dopo una stagione ai massimi livelli.
L'attacco è un'incognita, manca sempre il ricambio generazionale ad Alan Shearer, l'ultimo vero grande bomber inglese. Rooney e Sturridge sono ottimi attaccanti, ma basteranno?

Costa Rica: francamente una delle squadre meno appetibili in questa manifestazione. I centroamericani sono riusciti a qualificarsi grazie ad un misto di gioventù ed esperienza.
In porta giova Navas del Levante, mentre la difesa è presidiata da Duarte, Diaz e Gamboa, abituati tutti e tre ai campionati europei meno blasonati.
La stella della squadra è comunque Joel Campbell, punta classe '92 dell'Olympiacos capace di segnare in tutte le competizioni in cui ha giocato quest'anno.

Group E
Switzerland: la vera rivelazione fra le teste di serie. Gli elvetici hanno stupito il mondo nel 2010, battendo la Spagna all'esordio, e sono tutt'ora una squadra altamente competitiva. Il girone non proprio impossibile potrebbe agevolare il passaggio del turno, ma non credo che a singoli se la possa giocare con la Francia.
Sommer a guardia della porta è una sicurezza; Djourou, Von Bergen, Senderos e Lichtsteiner in difesa rappresentano giocatori a noi conosciuti e di esperienza.
In mezzo al campo Inler e Behrami saranno la quantità, ma occhio al giovane Xhakha; Dzemaili e Shaqiri le scintille pronte ad innescarsi. In avanti, qualora non giocasse Shaqiri da "falso nueve", le speranze svizzere ricadono sull'ex fiorentino Aris Seferovic, reduce da una stagione altalenante con la Real Sociedad; o sull'esperto Stocker, un'istituzione al Basilea.  

Ecuador: i sudamericani sono ormai una solida realtà nel panorama Mondiale. La stella della squadra è Antonio Valencia, ala del Manchester United ed anima del gioco ecuadoregno. Accanto a lui un misto di giocatori "locali" ed alcuni sparsi per l'Europa, Germania e Russia in particolare.
Occhio allora ai vari Paredes e Ramirez in difesa; Gruezo, Ibarra e Martinez a centrocampo. In avanti mi incuriosisce molto Felipe Caicedo, approdato quest'anno negli emirati (per soldi) dopo ottime parentesi nel Levante e nella Lokomotiv Mosca. E' un classe '88, un bel Mondiale potrebbe riportarlo nel calcio che conta.

France: Didier Deschamps, salvato da un "magheggio" Fifa, può sorridere, il girone francese è agevole. Agli ordini dell'ex bianconero una mistura di esperienza e gioventù che potrebbe spingere la Francia più avanti di quanto si pensi, anche se dubito possa arrivare fino in fondo alla manifestazione.
Hugo Lloris in porta è una garanzia di affidabilità, così come Evra in difesa. Varane, definito da Mourinho "il miglior giovane difensore del mondo" e l'eroe delle qualificazioni, Sakho, sono sicuro faranno un'ottima figura.
A centrocampo la stella, nonostante sia un '93, è Paul Pogba. Accanto a lui Valbuena e Matuidi sono giocatori di ottimo livello; il vecchio Rio Mavuba e Cabaye sono invece un gradino sotto. In avanti fari puntati su Karim Benzema e, ovviamente, sul supporto di Frank Ribery, all'ultima occasione per provare a vincere il Pallone d'Oro.

Honduras: vale lo stesso discorso fatto per il Costa Rica, i centroamericani saranno una squadra onesta ma non all'altezza delle altre. Con l'addio di David Suazo, gli honduregni poggiano il loro gioco sul collettivo e su alcuni giocatori di maggiore esperienza internazionale. Fra questi i difensori Izaguirre e Figueroa, abituati a giocare in Scozia ed Inghilterra. A centrocampo gioca il diamante della squadre, Wilson Palcios dello Stoke City. Per il resto la formazione è valida e atleticamente preparata, ma difficilmente potrà superare il turno eliminatorio.

Group F
Argentina: impossibile non pensare a Messi e compagni come dei favoriti. A quasi 30 anni dall'ultima affermazione (Messico '86), l'albiceleste ha l'obbligo di provare a vincere. Per Messi, che porta sulle spalle il fardello di non essere decisivo come Diego Maradona con la maglia dell'Argentina, è un'occasione ghiottissima.
La squadra è di primissimo livello, poco da dire. A parte l'inspiegabile scelta dei portieri (Romero, Andujar, Orion), difficile trovare punti deboli. Zabaleta e Garay sono ottimi giocatori, con quest'ultimo che mi ha davvero stupito dopo una parentesi agrodolce al Real Madrid. Da valutare Campagnaro e Fernandez, mentre De Michelis è quell'uomo di esperienza che potrebbe essere impiegato costantemente. Per Otamendi, invece, è l'occasione giusta per farsi notare. La stessa che ha Mascherano, finalmente reimpiegato come centrocampista. Proprio in quella zona, a mio avviso, l'Argentina ha delle lacune. Tolto Di Maria, Ricky Alvarez è lento e poco decisivo; Enzo Perez un mastino; Biglia non all'altezza dei migliori del mondo. Insomma, i tempi di Simeone, Veron e Redondo sono lontani.
A compensare, però, c'è un attacco atomico. Messi-Aguero sono una coppia pazzesca; Palacio e Lavezzi non proprio dei rincalzi; Gonzalo Higuain il puntero per scardinare le difese più arcigne. Spicca la mancata convocazione di Tevez, inspiegabile quanto la scelta di sostituirlo con quel "pippero" di Di Santo, lasciando a casa giovani come Iturbe e Vietto o consumati bomber come Denis.

Bosnia and Herzegovina: prima volta al Mondiale per i bosniaci, che arrivano con alcuni giocatori di livello assoluto. Le stelle sono ovviamente Miralem Pjanic ed Edin Dzeko, freschi di una stagione vissuta al massimo. Accanto a loro il laziale Lulic, Misimovic e Vedad Ibisevic, un attaccante di sicuro affidamento.
I bosniaci hanno tutte le carte in regola per passare il turno alle spalle della favorita Argentina, giocandosi con le aquile nigeriane un match tatticamente molto bello. I bosniaci metteranno in campo tecnica e visione di gioco; la Nigeria risponderà con fisicità e velocità, sarà davvero una bella partita.

Iran: gli iraniani sono un movimento calcistico interessante, alla quarta partecipazione ad un Mondiale. Non vantano più giocatori interessanti come Ali Daei o Mahdavikia, ma sono comunque una compagine da tenere d'occhio.
Agli ordini dell'ex United e Real Madrid Carlos Queiroz, gioca tutta gente abituata alle competizioni europee, seppure non di primo livello. Da tenere sott'occhio il centravanti del Las Palmas, Shojaei, e Sardar Azmonun, attaccante rapido in forza al Rubin Kazan.

Nigeria: lontani i tempi di Usa '94 o Atlanta '96, ma attenti alle aquile nere. La Nigeria non avrà le stelle di metà anni '90, ma è una squadra di tutto rispetto. Non è un caso se ha vinto la Coppa d'Africa; Argentina a parte sarà un cliente ostico per Bosnia e Iran.
I giocatori sono quasi tutti abituati a competere ai massimi livelli, a iniziare dalla difesa. Enyeama in porta rappresenta una soluzione affidabile, così come i difensori Ambrose, Omeruo e Yobo.
A centrocampo Obi-Mikel è il nome di grido, ma sono tanti i nomi noti: Onazi, Obi, Oduamadi e Igiebor, che vorrà vendicare la retrocessione con il Betis.
Il reparto avanzato si poggia sull'esperienza di Shola Ameobi, una vita spesa con la maglia del Newcastle. Accanto a lui il clivense Obinna ed il giovane Moses, pronto a vendicare il titolo sfuggitogli nelle ultime giornate con il Liverpool.

GroupG
Germany: da tutti indicata come una delle migliori tre del Mondiale, la Germania è da sempre un cliente difficile. I tedeschi nelle manifestazioni che contano ci sono sempre; anche quando non sono eccelsi, comunque, è difficile batterli.
In porta la sicurezza si chiama Manuel Neuer, anche se stupisce che in rosa non ci sia il futuro blaugrana Ter-Stegen. La retroguardia è equamente divisa fra le migliori due di Germania, Bayern e Dortmund. Boateng, Hummels, Grosskreutz e Lahm sono un quartetto di tutto rispetto, così come le alternative: Durm, Howedes e Mertesacker.
A centrocampo tantissima qualità con un Toni Kroos formidabile in questa stagione e i vari Schweinsteiger, Gotze, Schurrle e Bender. Una nota a parte la meritano Marco Reus e Julian Draxler, rispettivamente un fenomeno e un campione in divenire.
L'attacco poggia sulle spalle del solito vecchio Klose, abilmente preservatosi nel corso della stagione come fa sempre prima di una grande competizione internazionale. Nessuna chance per Mario Gomez, che ha chiuso il suo anno nero con l'ennesimo due di picche.

Portugal: storicamente una squadra bella ma poco prolifica sotto porta, il Portogallo sembra avere
invertito il trend. Merito ovviamente del Pallone d'oro in carica, Cristiano Ronaldo.
I lusitani sono sempre una bella squadra, ricca di talento e individualità. Anche quest'anno il discorso non è diverso, con campioni in tutti i reparti. La porta è presidiata dall'eroe di Europa League, Beto, estremo difensore rustico ma molto efficace. La retroguardia si articola intorno ai madrileni Pepe e Coentrao e viene completata dall'esperto Bruno Alves e , probabilmente, dall'ex senese Neto.
A centrocampo la qualità di Joao Moutinho e Raul Meireles è contrapposta alla quantità di Miguel Veloso e Rubèn Amorin, uno che sembra avere sette polmoni.
L'attacco è ovviamente appannaggio di sua maestà CR7, supportato probabilmente da Nani o Varela. Difficile pensare a delle chance per Postiga o Hugo Almeida, elementi forse di troppa esperienza.

Ghana: attenzione, questi corrono come dei pazzi. Il leit-motiv che ci accompagnò all'esordio del Mondiale 2006 è ancora oggi valido, il Ghana è squadra fisica e atleticamente preparata. Guai però a considerarli solo dei corridori, le individualità non mancano, specie dalla cintola in su.
Le stelle della squadra sono ovviamente il bianconero Asamoah e l'ex milanista Kevin Prince Boateng, che vorrà festeggiare la paternità con un goal all'esordio. Accanto a loro elementi di tutto rispetto come Muntari, Essien, Badu e Acquah, tutti temprati dal nostro campionato.
In avanti son curioso di vedere in azione i fratelli Ayew, Jordan e Andre, figli dell'ex granata Abedì Pelè. Li ho visti giocare in Champions ed in Ligue1, potrebbero essere un cliente molto difficile per i prestanti marcatori tedeschi.

USA: presenza fissa ormai, gli Stati Uniti non saranno una corazzata ma al Mondiale alzano sempre la mano. Agli ordini dell'ex c.t. tedesco Jurgen Klinsmann vestirà la maglia degli states un gruppo composto di giovani ed esperti. I più conosciuti ed affidabili sono certamente DaMarcus Beasley e l'ex giallorososo Michael Bradley, vere colonne degli americani. Non sottovalutate però anche Jermaine Jones, Dempsey, Altidore ed il simbolo vero di questa nazionale, il recordman di goal Landon Donovan.
Difficile pensare che gli USA possano scalfire Germania e Portogallo, ma già il fatto di esserci di nuovo è un successo per il movimento del "soccer".

GroupH
Belgio: quando vedrete il Belgio giocare un grandissimo calcio ricordatevi di me. I diavoli rossi sono tornati, con forza e convinzione. Secondo me saranno insieme alla Colombia la vera sorpresa di questo Mondiale, non gli manca davvero nulla.
In porta l'imbarazzo della scelta, Mignolet e Courtois sono affiadbili, delle vere sicurezze. La difesa può vantare gente come Alderweireld, Kompany, Verthongen e Vermaelen, tutti giocatori che si giocherebbero il posto da titolare in qualsiasi nazionale del mondo.
A centrocampo l'abbondanza è tale che un ottimo giocatore come Nainggolan potrebbe guardare il Mondiale seduto in poltrona. Hazard è la stella, ma alzi la mano chi non vorrebbe nella sua squadra Witsel, Defour, De Bruyne o quella macchina recupera palloni di Dembele. Un anno fa avrei speso elogi per Fellaini, che potrebbe comunque riscattarsi nel corso del Mondiale, evento in cui potrebbe esplodere il talentino Januzaj.
In avanti la velocità di Dries Mertens e la concretezza di Romelu Lukaku. Peccato non poter vedere Benteke, un attaccante che personalmente adoro e che ha avuto davvero sfortuna nel finale di stagione.

Algeria: il movimento algerino è in vertiginosa crescita, la qualificazione ne è la testimonianza. In un girone con Belgio e Russia è difficile pensare che gli africani ce la possano fare, ma ci proveranno. La forza è il collettivo, ma in rosa ci sono individualità interessanti. Dietro ad esempio il livornese Mesbah ed il napoletano Ghoulam, una vera sorpresa per me.
A centrocampo Feghouli del Valencia e Kadir del Rennes sono gli elementi di maggior talento; mentre l'attacco ha in Slimani il suo gioiello. Classe 1988 è ad un bivio: spiccare il volo o rimanere in Portogallo.

Russia: Fabio Capello è una garanzia, affrontare i russi sarà difficile per tutti. Il tecnico di Pieris, oltre alla sua bravura ed esperienza, ha anche materiale di prima scelta a disposizione.
In porta l'esperto Akinfeev, uno abituato a giocare ai massimi livelli da anni. La difesa è un vero e proprio blocco del Cska, con i fratelli Berezutsky e Ignashevich; accanto a loro Anyukov, uno di cui Spalletti non ha mai fatto a meno quando allenava lo Zenit.
A centrocampo Dzagoev e Zhirkov hanno stupito l'Europa durante Euro2012, son pronti a confermarsi a livello mondiale. Attenzione anche a Shirokov e Faizulin, che potrebbero prepotentemente entrare nei sogni di mercato delle più blasonate compagini europee.
L'attacco è forse il reparto meno dotato di abbondanza, con l'esperto Kerzhakov come punta di diamante. Segnatevi però il nome di Kokorin, classe '91 della Dinamo Mosca pronto a consacrarsi con la maglia della Russia.

Korea Republic: gli uomini di Seoul si presentano al Mondiale con scarse velleità di successo ma una squadra sufficientemente esperta da fare una buona figura.
I più giocano in oriente, come Younggwon fresco vincitore della Champions asiatica agli ordini di Lippi. Ci sono però anche giocatori temprati da campionati più probanti, come Sukyoung, Sungyeung e Chungyong, tutti impiegati in Europa.
La vera stella è un classe '92 che gioca nel Bayer Leverkusen e risponde al nome di Son Heung-Min. Approdato in Germania da giovanissimo, il coreano ha conquistato tutti ormai da due stagioni. 12 reti nel 2012 con L'Amburgo; 10 quest'anno con il Leverkusen. Il futuro del calcio coreano passa attraverso i suoi piedi e le sue idee, non mi stupirei di vederlo presto con una maglia ancor più blasonata di quella delle aspirine.

20 maggio 2014

Waiting for the Final: Real Madrid v Alteltico Madrid, el "Derbi madrileño"

Il Real Madrid "por la dècima"; l'Atletico per fare la storia. Si potrebbe racchiudere in questa piccola descrizione una partita che già di per sè non è mai stata uguale a tutte le altre.
La finale di Champions League che ci apprestiamo a vivere sabato è una delle più tese e cariche di significati della storia di questa meravigliosa manifestazione.

Il Real di Ancelotti - o come lo chiamano in Spagna "il Madrid" - è sempre nel novero delle favorite. Impossibile non pensare alla Casa Blanca come ad una squadra che possa alzare la coppa, un po' come quando al Mondiale si presenta ai blocchi di partenza il Brasile. Quest'anno, poi, in panchina siede uno specialista della Coppa, Carlo Ancelotti. E' stato scelto proprio per riportare le Merengues sul tetto d'Europa, raccogliendo l'eredità di un certo Josè Mourinho, capace di vincere la Liga ma fermato per due anni consecutivi ad un passo dalla finale.
L'Atletico Madrid è invece il nuovo che avanza. Nessuno avrebbe scommesso sull'ascesa degli undici Colchoneros, eppure Simeone ha fatto un lavoro pazzesco. Ha saputo sopperire alla cessione di Falcao, non prorpio uno qualunque, cementando il gruppo. Ha trasmesso ai suoi ragazzi quel carisma e quella voglia di vincere che lo hanno contraddistinto per tutta la carriera. In aggiunta, ha riportato in vita quel senso di appartenenza alla casacca bianco-rossa che nel corso degli ultimi anni si era perduto. Sotto la sua guida non solo sono esplosi i vari Diego Costa, Arda Turan, Gabi, Koke.. ma la squadra intera si è radicalmente trasformata, diventando un vero carrarmato. L'Atletico non è solo la difesa meno battuta d'Europa, è anche l'unica squadra ad aver festeggiato una Liga sul campo del Barcelona, impresa mai riuscita a nessuno in tutta la storia del calcio spagnolo. E lo ha fatto persino in rimonta, segno che il carattere agli uomini del Cholo non manca davvero.

Per inquadrare il match e i suoi significati, un'intervista esclusiva all'agente Fifa Gianfranco Cicchetti, con il qual scopriremo i meandri più reconditi di un derby infuocato, mai visto prima nella storia del calcio europeo, almeno a livello di finale.

Ciao Gianfranco, bentornato. Partiamo subito con le domande, Atletico Madrid v Real Madrid, l'ennesima testimonianza dello strapotere spagnolo. Ti saresti aspettato un derby in finale?

Ciao a tutti innanzitutto. La finale che gli addetti ai lavori si attendevano era Real Madrid-Bayern Monaco, ma purtroppo si sono affrontati in semifinale. Sull'Atletico nessuno avrebbe scommesso un euro ed invece la squadra di Simeone ha sorpreso tutti.
Sul Real, invece, credo che in pochi avessero dubbi sul fatto che sarebbe arrivato fino in fondo. Il derby in finale penso sia una cosa mai capitata prima, sicuramente non me lo sarei aspettato alla vigilia della Champions.



L'Atletico ha vinto la Liga in una rocambolesca partita contro il Barcelona, arriveranno carichi o appagati?

Arriveranno carichi, gasati e con niente da perdere. Se invece avessero perso la Liga negli ultimi minuti, avrebbero potuto pagare a livello psicologico la delusione e soprattutto il fatto di dover vincere per forza contro il Real per salvare la stagione. Ovviamente sono discorsi che lasciano il tempo che trovano una volta che si scende in campo.

Quanto potranno pesare le assenze di Diego Costa ed Arda Turan nel gioco colchonero?

Dalle ultime notizie dovrebbero farcela entrambi, ma ovviamente non saranno al massimo. Senza di loro, l'Atletico perde tanto, perchè sono anche due trascinatori e due leader caratteriali del gruppo.

Cristiano Ronaldo è in dubbio, schierarlo non al massimo potrebbe essere un rischio per Ancelotti?

Penso che lo schiererebbe anche al 50%, la sua presenza è troppo importante per l'economia delle Merengues. E' uno di quei pochi giocatori al mondo a poter risolvere una partita con una semplice giocata.


E' una sorta di Davide contro Golia. Da un lato un Atletico che non ha speso troppo; dall'altra una superpotenza economica. Quale insegnamento possiamo trarre e quali consigli dalle due madrilene?

E' un Davide contro Golia solo dal punto di vista economico, perchè l'Atletico, nonostante abbia un monte ingaggi tre/quattro volte inferiore al
Real, è una squadra di qualità, fisicità e con grandi individualità, creata a immagine e somiglianza del suo allenatore. Gli insegnamenti che possiamo trarre sono che anche senza risorse infinite, con l'organizzazione, la programmazione e un mercato intelligente si possono ugualmente ottenere risultati importanti.
Di contro anche ingenti investimenti senza un allenatore adeguato come può essere Carlo Ancelotti non si va da nessuna parte. I soli soldi non bastano, ci vogliono sempre competenza e organizzazione, nel calcio non si inventa niente.

Simeone contro Ancelotti, due centrocampisti tosti a confronto. Non è un caso che alcuni fra i migliori allenatori siano stati mediani (Conte, Guardiola, Trapattoni..), te lo spieghi in qualche modo?

I due erano già allenatori in campo, il passaggio sulla panchina è stato praticamente automatico. Il ruolo che un giocatore ha in campo influisce molto sul suo futuro da allenatore, ma non è un vero e proprio dogma. Basta pensare a Sacchi e Mourinho, che a calcio hanno giocato poco e a livelli non alti per smentire tale concezione.

In caso di vittoria per l'Atletico, potrebbe essere uno spot per il calcio e per il fair play finanziario introdotto dall'UEFA?

Penso proprio di si. Sarebbe la dimostrazione che non sempre vincono i più forti.

Per chiudere, un pronostico secco?

Vince il Real Madrid 2-1.

19 maggio 2014

Storie di calcio: il River Plate è tornato, con un carico di talenti pronti ad esplodere

Ha vinto. Il River Plate è tornato grande, uffcialmente. Dopo sei anni di buio, una retrocessione e tanta amarezza, finalmente i Millonarios son tornati sul tetto d'Argentina. La storia del River degli ultimi anni è singolare, appassionante. Una squadra fortissima messa in ginocchio, che riparte dalla cadetteria senza arrendersi. Questo verbo non esiste al Monumental, non sarà mai usato.
Dopo un torneo Inicial a dir poco orrendo, chiuso al diciassettesimo posto, il River fa tabula rasa e riparte con un nuovo piglio. La squadra è un perfetto mix di gioventù ed esperienza, sapientemente armonizzato da Ramon Diaz, una garanzia di successo. Le stelle della squdra sono l'ex Catania Cristian Ledesma e "El Torito" Fernando Cavenaghi, uno su cui avrei scommesso più di un euro dieci anni fa. E invece, dopo esperienze agrodolci nel vecchio continente, eccolo tornare alle origini, con la fascia di capitano al braccio e la voglia di vincere. La stessa che non manca alla giovane stellina dei Millonarios, quel Manuel Lanzini destinato ad infiammare il mercato estivo.

Il River, che da sempre lancia alcuni fra i migliori giovani d'Argentina, ha nel suo serbatoio altri due fuoriclasse: Villalba e Simeone. Già, questo nome suonerà familiare, ed effettivamente lo è. Soprannominato "El Cholito", Giovanni Simeone è il figlio di Diego, allenatore che fra poco meno di una settimana si giocherà una storica Champions League con l'Atletico Madrid, poco dopo averlo riportato sul tetto di Spagna a venti lunghissimi anni di distanza dal capolavoro firmato Radomir Antic.




E allora scopriamo Giovanni Simeone con l'esperto di calcio sudamericano ed agente Fifa Gianfranco Cicchetti, che in esclusiva per Esperto di Calcio ci spiega chi è questo giovane talento.

"Simeone è un attaccante moderno, con buonissime doti tecniche, veloce e mobile, ha caratteristiche simili a Fernando Torres. Può giostrare sia da prima che da seconda punta, vede la porta ed è dotato di un'ottima balistica nelle conclusioni. Deve migliorare nella continuità delle prestazioni, ma è un '95 ed ha tutto il tempo per crescere e rafforzarsi. E' un giovane di grande prospettiva che non ha avuto paura nell'impatto in una realtà difficile e blasonata come quella del River Plate, segno di buona personalità. Ha passaporto spagnolo, il che gli faciliterà il trasferimento da qui alle prossime stagioni in un campionato europeo. E' tra i migliori giovani del calcio argentino, assieme a Correa e Driussi è tra i migliori prospetti della generazioni dei neo maggiorenni. Un altro anno di esperienza nel campionato argentino gli permetterà di raggiungere i livelli di rendimento di altri giovani come Lanzini, Villalba, Vietto e De Paul, ormai pronti al trasferimento in Europa."

Lazini e Villalba son pronti per il calcio che conta, ma c'è da scommettere che anche il piccolo Simeone farà strada. Se ha preso anche solo un quarto del carattere paterno, la via del successo è dietro l'angolo.

17 maggio 2014

Storie di calcio: Alessandro Del Piero, il capitano

"Tutti i ricordi, tutte le gioie, tutti i trionfi e – per dirla tutta – anche qualche recente amarezza… oggi tutte queste immagini mi passano davanti e a un certo punto si appannano e si dissolvono in quell’abbraccio meraviglioso della mia ultima partita a Torino. Quella è la fotografia che racchiude tutto, l’istantanea che voglio portare sempre con me.
I giocatori passano, la Juventus rimane. Rimangono i miei compagni, ai quali auguro il meglio: tiferò sempre per loro. Rimanete soprattutto voi tifosi, che siete la Juventus. Rimane quella maglia che ho amato e amerò sempre, che ho desiderato e rispettato, senza alcuna deroga, senza sconti. Sono felice che altri dopo di me possano indossarla, anche e soprattutto la “10” che da quando esistono i nomi sulle maglie bianconere, ha sempre portato il mio. Sono felice per chi la indosserà l’anno prossimo, sono felice che da qualche parte – in Italia e nel mondo – qualcuno sta sognando di indossarla. E sarei orgoglioso che volesse ripercorrere la mia storia, come io ho fatto con altri campioni, altri esempi, altre leggende.
Da domani non sarò più un giocatore della Juventus, ma rimarrò per sempre uno di voi
".

Questa è la storia che più di tutte le altre è permeata di significato, di sentimento. Allo stesso tempo, però, è anche l'unica che avevo paura di scrivere. Raccontare con delle semplici parole cos'è stato Alessandro Del Piero, nella mia vita, non è semplice. Può sembrare retorica, esagerazione, ma quello che io considero ancora oggi "il" capitano è il calciatore che più di tutti gli altri mi ha avvicinato a questo magnifico sport, che ha stabilito un profondo legame fra me e il calcio.
Nel corso dei suoi 19 anni alla Juventus Del Piero è cresciuto, da giovane promessa è diventato un campione affermato, poi un simbolo, una bandiera. Io, che ho iniziato a sognare di emulare i suoi tiri a giro in tenera età, sono cresciuto con lui.

Correva l'anno 1992, un giovane ragazzo veneto si affaccia al grande calcio con la locale maglia del Padova, squadra militante in cadetteria. Ad allenarla c'è Mauro Sandreani, allenatore che non troverà mai grosse fortune in Serie A, ma che porterà sempre con sè il merito di aver lanciato nel grande calcio un ragazzo gracile ma dalla classe cristallina. Quel ragazzo si chiama Alessandro Del Piero, viene da una normalissima famiglia di Conegliano e ha un solo grande sogno: diventare un calciatore. Madre natura non gli ha regalato un fisico fuori dal comune, ma si è fatta perdonare regalandogli classe e tecnica da vendere. In Primavera è inarrestabile, ma la minuta struttura spaventa i grandi club. Il Milan, squadra allora dominante in Italia ed Europa, lo fa visionare ma lo scarta, preferendo puntare su altri giovani. Ad accaparrarselo è la Juventus di Boniperti, che nel 1993 lo porta sotto la Mole.
Agli ordini di Trapattoni vive una prima stagione esaltante, conoscendo il grande palcoscenico della Serie A il 12 settembre, subentrando a Fabrizio Ravanelli nella gara in trasferta contro il Foggia di Zeman, un nome che ricorrerà più avanti nella sua carriera.
Che il ragazzo avesse una marcia in più, del resto, si era già capito ad inizio stagione: se con i pari età Del Piero sembra un extraterrestre, basta una settimana d’autunno per vedere come, con i grandi, si trovi già perfettamente a suo agio. Il 19 settembre 1993 lo Stadio delle Alpi, contro la Reggiana, saluta la prima rete del campioncino padovano.
"È stato un giorno davvero esaltante. Abbiamo vinto, ho segnato la mia prima rete ed era anche l’anniversario di matrimonio dei miei genitori. È stato un giorno speciale in tutti i sensi".
L'exploit di Del Piero mostra a tutti che l'investimento fatto dai bianconeri è stato indovinato, ma per il momento il titolare della maglia numero 10 è Roberto Baggio. Difficile obiettare. Forte del Pallone d'Oro appena conquistato, il "divin codino" è un campione assoluto, di quelli che nascono uno ogni vent'anni. Del Piero lo sa ed entra in spogliatoio in punta di piedi. I numeri li ha, se ne rendono conto tutti fin dai primi allenamenti, ma la strada davanti a lui è ancora irta e faticosa. Ad aiutarlo ci sono l'esperienza di Trapattoni e i consigli di Vialli, che fin da subito lo prende sotto la sua ala protettrice.

Passavano le settimane e la consapevolezza di Del Piero cresceva; di pari passo le presenze in campo. A fine stagione metterà in bacheca 11 presenze e la bellezza di 5 reti, non male per un debuttante. Ancor meglio se pensiamo che le abbia realizzate in soli 403', con una media superiore ad un goal per partita.
In estate Giovanni Trapattoni saluta la Vecchia Signora per accasarsi al Bayern Monaco, nobile del calcio europeo che necessita di essere riportata agli antichi fasti. Sulla panchina della Juventus arriva un toscano con le idee chiarissime, Marcello Lippi. Il feeling fra i due è immediato. Alessandro si dedica anima e corpo agli insegnamenti del nuovo tecnico; Lippi gli concede sempre maggiore spazio. Roberto Baggio resta ancora il titolare, ma nel cuore dell'allenatore e dei tifosi quel giovane padovano inizia ad insinuarsi.
Si sono spese tante parole sul presunto dualismo fra Baggio e Del Piero, su di uno scarso rapporto fra i due. In realtà erano tutte menzogne, allo stato puro. I ragazzi si rispettano, e non potrebbe essere altrimenti. Roberto intuisce subito che dinnanzi a sè ha un fuoriclasse, non l'ultimo arrivato; Alessandro mostra tutto il rispetto dovuto ad un campione assoluto. In allenamento duettano che è un piacere. Chi come me ha avuto la fortuna di vederli insieme sul campo del vecchio "Comunale" di Torino lo sa, sono stati utili l'uno per l'altro. Baggio ha rappresentato per Del Piero l'ispirazione, il simbolo, la leggenda cui aspirare; Alessandro è stato per Roberto la scossa per non sedersi. Lui come Totti sono stati quegli stimoli che lo hanno portato ad essere uno dei migliori di sempre, anche a fine carriera.
Lippi è nuovo sulla grande scena calcistica, ma ha personalità da vendere. Il suo calcio propositivo è basato su un tridente di movimento, composto da Baggio, Ravanelli e Vialli. Alle loro spalle la prima scelta è Del Piero, che complice qualche acciacco di troppo per il "divin codino", mette insieme la bellezza di 29 presenze ed 8 reti. Il numero dei goal non deve trarre in inganno, perchè Alessandro stupisce il mondo in quel 1995 con il suo marchio di fabbrica. Nasce infatti il "goal alla Del Piero". Parte sulla trequarti sinistra, accarezza dolcemente la palla con il destro e punta l'avversario. Scatto improvviso per trovare lo spazio, rientra sul destro e scocca il tiro. La parabola è morbida e precisa, con il pallone che sembra fuori dai pali e piano piano gira e rientra, fino ad insaccarsi sotto l'incrocio del secondo palo. Il volo dell'estremo difensore, proteso con la mano di richiamo, è sempre eluso dall'arcuata parabola.



Al timone della dirigenza juventina è seduta la cosiddetta triade, Moggi, Giraudo e Bettega. I tre fiutano l'affare e a fine stagione, dopo aver festeggiato lo Scudetto, parlano con Lippi. Il tecnico avalla la scelta di puntare su Del Piero e cedere Roberto Baggio, subito accasatosi al Milan di Capello e Berlusconi. Del Piero viene così investito della numero 10, maglia sempre indossata a livello giovanile. Alessandro è felice, può finalmente vestire la casacca portata dal suo idolo, quel Michel Platini che campeggiava sul poster nella sua cameretta.
Molti si spaventerebbero, ma non Del Piero. Si carica la squadra sulle spalle ed incanta il mondo con le sue giocate. Dribbling di alta scuola, verticalizzazioni geniali e goal da applausi. Ne fanno le spese Borussia Dortmund e Glasgow Rangers, letteralmente annichilite nei gironi di Champions League. Già, l'Europa che conta, quella vinta una sola volta e troppe volte sfiorata dalla Signora. Così, mentre il Milan di Baggio festeggia lo Scudetto, la Juventus di Del Piero macina vittorie in ambito internazionale.

Il Real Madrid di Raùl, altro giovane campione, prova a spaventare i bianconeri, capaci di eliminare gli spagnoli grazie ad una punizione del numero 10 ed una rete di Padovano.



Il Nantes non rappresenta un ostacolo reale, che ha invece le sembianze di un olandese rude e deciso: Van Gaal. Nella finale di Roma, infatti, è l'Ajax di Van Der Sar, Davids, Litmanen e Kluivert a partire con i galloni del pronostico. Ai rigori, però, la spunta proprio la Juventus di Del Piero, predicato di calciare il quinto ed ultimo rigore della serie. Ma non è necessario, Peruzzi e Jugovic regalano ai piemontesi la coppa dalle grandi orecchie, lanciando Del Piero nel firmamento.


Di lì in avanti si susseguono incredibili successi e cocenti delusioni. La bacheca si arricchisce di numerosi trofei, ma troppo spesso colorati del solo tricolore italiano. In Europa, infatti, inizia una vera e propria maledizione per Del Piero e per la Juventus. Due consecutive finali di Champions, con la seconda che darà il via al periodo più opaco della sua carriera. Nel maggio del 1998, ad Amsterdam, la Juventus si trova di fronte il Real Madrid. Del Piero e Zidane sono le stelle di quella finale, ma entrambi steccano la partita. Alessandro è stremato, arriva dopo una stagione eccessivamente tirata. Durante il match sente un forte dolore alla coscia, ma tiene duro. Rientrato negli spogliatoi la diagnosi: stiramento alla coscia.
I Mondiali francesi sono alle porte ed il commissario tecnico Cesare Maldini ha riposto in Del Piero gran parte delle sue speranze. Stante la situazione l'Italia porta Roberto Baggio, che risulterà in quella rassegna decisamente più pimpante.
Uscito ai quarti contro la Francia, Del Piero cerca di riposarsi e torna in campo nel settembre del 1998. La Juventus di Lippi, però, non è più la stessa. Del Piero stesso non incide come qualche mese prima, e a inizio inverno il crack. Allo scadere di una trasferta in casa dell'Udinese, Del Piero calcia in contrasto con Bertotto. Il ginocchio si piega in maniera innaturale ed il legamento si spezza. Di lì una lunga riabilitazione, fatta di molte cadute e poche gioie. La difficoltà ad andare in rete, specie su azione; gli scudetti persi all'ultimo minuto contro Roma e Lazio nell'acquitrino di Perugia; la morte del padre. Ma proprio nel giorno in cui la tristezza aleggia nel cuore, il ritorno. Come l'araba fenice, Del Piero risorge dalle sue stesse ceneri. Prende palla sulla sinistra, l'accarezza dolcemente con la sua e salta il suo diretto avversario. Si presenta in velocità di fronte al portiere e lo supera con un tocco sotto delizioso e letale. L'urlo liberatorio, stringendo i pugni e gridando tutta la sua rabbia, è un esplosione di sentimenti, un misto di rabbia e tristezza che Alessandro deve gridare al mondo.



Ripresosi la Juventus, Del Piero torna ad essere il centro del mondo juventino. Fascia di capitano al braccio e numero 10 sulle spalle, Alessandro ristabilisce con Marcello Lippi l'antico sodalizio. Accanto a lui giostra un altro bomber che farà storia, David Trezeguet. I due si stimano e si apprezzano, come uomini e come giocatori. Si completano alla perfezione, tanto da diventare nel corso degli anni la miglior coppia di attaccanti della storia della Juventus.
Come sempre fioccano i successi in campo nazionale, ma la Champions League resta una chimera. Dopo aver "fatto fuori" il Real Madrid di Raùl, Ronaldo, Zidane e Figo, è il Milan di Shevchenko a togliere dalle mani di Alessandro la seconda Champions League della sua carriera, la prima che avrebbe potuto alzare come capitano.



Nemmeno l'approdo di uno specialista in Europa come Fabio Capello cambia le cose, anzi le peggiora. La Juventus esce prematuramente due anni su due; Del Piero fatica a trovare spazio fra i titolari. Capello gli preferisce Trezeguet e Ibrahimovic, ma ogni volta che il capitano mette piede in campo lascia il segno. Le prestazioni gli valgono la chiamata dell'antico maestro Lippi al Mondiale tedesco. Se nel 1998 il dualismo era con Baggio, nel 2006 lo vive con Francesco Totti, che parte quasi sempre con i galloni del titolare. Lippi ha però massima fiducia in Del Piero, che lo ripagherà con un fantastico goal nella semifinale con la Germania. All'atto conclusivo, poi, è suo uno dei cinque rigori che ci regalano la Coppa, e la gioia nei festeggiamenti romani al Circo Massimo è palpabile.



Nel frattempo Del Piero vive una situazione molto particolare, come tutti i bianconeri. La Juventus, per via di Calciopoli, è retrocessa. La squadra (o per meglio dire la corazzata) di Capello viene smantellata e parte l'inevitabile esodo. Il primo ad accettare di scendere in B con i colori del suo cuore è proprio Del Piero, che fin da subito rincuora i tifosi. La scelta del capitano spinge le altre bandiere, Trezeguet, Buffon e Nedved a restare. Insieme fanno partire la ricostruzione della Juventus, partendo da un'assolata trasferta di Rimini.


La Serie B è visto da tutti come una sorta di Purgatorio, e Del Piero suona la carica in un ambiente depresso, a tratti abbattuto. La presenza del suo uomo simbolo rinvigorisce la juventinità di Torino, che si immedesima ancor di più nel suo numero 10. Il capitano risponde con prestazioni sublimi ed un titolo di re dei cannonieri che fino a quel momento non aveva mai vinto.

Il ritorno nella massima serie è contraddistinto da difficoltà ed un pronto rientro nell'Europa che conta.
Decisivo per tutta la stagione risulta ancora una volta Del Piero, capace di festeggiare per il secondo anno di fila il primato nella classifica marcatori, battendo sul filo di lana Trezeguet. A testimoniare lo straordinario legame e rapporto che intercorre fra i due, ecco l'ultima partita in quel di Genova. I due lottano per il titolo e alla Juventus viene assegnato un calcio di rigore. Sul dischetto va Del Piero, goal. Poco dopo un secondo tiro dagli undici metri, l'occasione perfetta per il veneto di consolidare la leadership. E' però lui che prende il pallone e lo porta a David, che scaglia un destro potente nel sacco. L'abbraccio fra i due, che chiuderanno appunto primo e secondo, è una pagina di sport bellissima.


L'anno successivo è sempre Alessandro il faro del gioco bianconero, anche se al suo fianco non gioca più lo spietato centravanti francese.
"Caro David, 
è arrivato il momento di dirsi ciao. Ho perso il conto delle stagioni che abbiamo giocato insieme e dei gol che abbiamo fatto. Di sicuro, siamo la coppia che ne ha segnati di più nella storia della Juventus, più di Charles e Sivori – due immensi campioni - e questo lo sai bene è un grande orgoglio per entrambi.
Quante formazioni in questi anni finivano così: Del Piero e Trezeguet, Trezeguet e Del Piero. Quante vittorie, quante delusioni (per fortuna, molte meno delle soddisfazioni che ci siamo tolti), quanti abbracci: non c’è altro compagno con cui io abbia giocato di più.
Diciassette gol all’anno di media, come il tuo numero di maglia: questo basta per dire che bomber sei. Ma per me che ho giocato al tuo fianco, non c’è bisogno di numeri. Ritengo sia stato un onore fare coppia in campo con uno dei più grandi attaccanti del mondo, in assoluto.
Adesso le nostre strade si dividono, nel calcio succede. Ti saluterò nello spogliatoio, ma mi fa piacere farlo anche pubblicamente: in bocca al lupo per la tua nuova avventura. Avremo tanti bei ricordi dacondividere, la prossima volta che ci vedremo
".



A far coppia con il capitano è un italo-brasiliano, Amauri. I due iniziano bene, tanto da spaventare il Real Madrid in quel di Torino ed annichilirlo al Bernabeu. Re della notte spagnola come sempre Del Piero, che fredda Iker Casillas con due calci di punizione meravigliosi. L'ovazione del Bernabeu e l'applauso fragoroso alla sua uscita dal campo sono segni inequivocabili che contraddistinguono l'uomo e il calciatore.



Esauritasi la spinta entusiastica, però, la Juventus piomba in anni di anonimato. Alessandro è il solito splendido giocatore, nonostante le primavere si avvicendino rapidamente sulle sue spalle. Ma non è il modo giusto di salutare la sua gente, non è il momento di andar via. Prima di dire addio, o meglio arrivederci, c'è una missione da portare a termine: riportare la Juventus ad essere tale.
Per farlo la società lo aiuta e come allenatore ingaggia un vecchio amico, Antonio Conte. Fra i due il rapporto è sempre stato schietto e sincero. Conte, capitano dall'addio di Vialli nel 1996, ha ceduto la fascia proprio a Del Piero, che non ha mai nascosto una certa stima nel suo centrocampista. Così, in un'assolata estate valdostana, Conte chiama Alessandro e Buffon. "Ragazzi, dovete aiutarmi. Siamo la Juventus e dobbiamo vincere". Le parole non sono probabilmente state queste, ma il concetto sì. Conte non lo dice alla stampa, ma il suo obiettivo è portare la Signora dove merita di stare.
L'impresa, perchè di impresa si tratta, si consuma nell'ultimo anno di Alessandro in maglia juventina. Al cospetto dei bianconeri c'è il Milan scudettato di Allegri, ma soprattutto di Ibrahimovic e Thiago Silva. La Juve però gioca bene, a mia memoria la più bella squadra dal primo Lippi in poi. Del Piero non è il protagonista indiscusso, ma è il guerriero che "osserva dalla collina ed è pronto a scendere in campo in caso di bisogno". Un moderno Pelide Achille calcistico.
I bianconeri giocano bene, vincono e convincono. Nel rush finale è Alessandro a mettere il sigillo decisivo, regalando tre punti contro un'agguerrita Lazio in una sera di Aprile in quel di Torino.

E poi il saluto dinnanzi al suo stadio, il suo nuovo stadio. Se è vero che la casa della Juventus è stata "battezzata a dovere"; è altrettanto vero che ad inaugurarla ci sia stato l'unico giocatore possibile, Del Piero. Immenso, padrone di ogni record, anche quello di esser l'unico della storia ad aver giocato in tutti e tre gli stadi della Juventus.



Non dimenticherò mai quel 13 Maggio del 2012, il giorno e la sera. Uno stadio gremito in ogni ordine di posto solo per lui. Alessandro gioca un'ora abbondante, segna una rete e poi il boato. Quando Conte lo richiama in panchina iniziano quaranta minuti di pura gioia e godimento. Non ricordo uno sportivo che abbia ricevuto un tributo così grande; un saluto tanto bello e caloroso. Dal suo saluto all'alzata della Coppa Scudetto non esiste nessuno all'infuori di Del Piero. Conte, Buffon, Pirlo..tutti importanti e artefici del successo, ma per tutta Torino esiste solo Alessandro Del Piero.
Quando passa sul bus scoperto fra due ali di folla, che così corpose si eran viste solo per i Mondiali, è un coro continuo e incessante. "Un capitano, c'è solo un capitano..un capitanoooooo". Ed è così, nel mio cuore Il Capitano sarà sempre Alessandro Del Piero. Grazie, sei e sarai sempre una leggenda.

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