Esperto di Calcio

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14 ottobre 2014

Saranno campioni, Lisandro Magallan

Durante il Mondiale brasiliano si sono spesi fiumi di parole per Balanta, forte centrale colombiano in forza al River Plate. Dopo un serrato corteggiamento da parte delle grandi d'Italia, Balanta sembrava ad un passo dalla Sampdoria. Il trasferimento al club del neo-presidente Ferrero è saltato ad un nonnulla dalla conclusione, così Balanta è rimasto nelle fila del River, dove sta incontrando più difficoltà del previsto.
Ad emergere, nelle rocciose difese argentine, è un altro classe '93, in forza al Boca Juniors. Il suo nome è Lisandro Magallan, meglio conosciuto in patria come "il nuovo Samuel", credenziali niente male per un giovane.




Per conoscerlo meglio ne ho parlato con un esperto del campionato argentino, l'amico e agente FIFA Gianfranco Cicchetti: "Lisandro Magallan è uno dei giovani emergenti del calcio argentino. Classe '93, è un centrale difensivo del Boca Juniors, eroe degli 'Xeneizes' nell'ultimo Superclasico con il River Plate con il gol che è valso il momentaneo 1-0 (il match è poi finito 1-1). Naz. U20 albiceleste, è un giovane estremamente interessante che si è guadagnato i galloni da titolare nell'ultimo campionato nella squadra del neo tecnico Arruabarrena. E' alla sua seconda stagione al Boca, che nel 2012 lo prelevò dal Gimnasia La Plata, club nel quale è anche cresciuto calcisticamente. Dopo una stagione in panchina con Carlos Bianchi, è andato a fare esperienza nel Rosario Central, dove ha giocare con maggiore continuità. Il ritorno alla 'Bombonera' gli ha fatto bene ed ha permesso al Boca Jrs di mettere in mostra un talento destinato al trasferimento in Europa. Piace a diversi club spagnoli e italiani, tra cui Juventus, Roma e Udinese. E' un centrale arcigno e veloce, i suoi 181 cm non gli impediscono di essere molto abile sulle palle alte, sia in fase difensiva che in quella offensiva, in particolar modo sulle palle inattive. Da molti addetti ai lavori è stato ribattezzato 'il nuovo Samuel', rispetto al quale ha in comune la provenienza e le caratteristiche fisiche ma non il piede mancino. In prospettiva può diventare un difensore importante, al momento è un centrale estremamente interessante al quale però necessiterebbe un trasferimento 'soft' in un club europeo di medio livello per gradualizzarne la crescita. E' extracomunitario e al momento ha una valutazione di mercato abbordabile che ne consiglierebbe un investimento immediato".
Se son rose fioriranno...

8 ottobre 2014

Storie di calcio: Graziano Pellè, the italian goal machine

"Se è passato tanto tempo dalla mia ultima convocazione in Nazionale, è stata soltanto colpa mia. Sono arrivato adesso alla maturità totale, fisica e mentale. Ho dovuto fare un giro largo ma meglio esserci comunque arrivato. Dunque meglio tardi che mai".
Le parole di Graziano Pellè, pronunciate ieri a Coverciano, tradiscono un filo di emozione. E' normale sia così, la Nazionale è il punto d'arrivo per qualsiasi calciatore, figuriamoci per chi, come lui, ha passato anni in provincia ed è dovuto emigrare per trovare posto.
Leccese di nascita e di scuola calcistica, Pellè viene considerato dagli addetti ai lavori un predestinato. Pochi ragazzi in Italia hanno il suo fiuto del goal ed il suo fisico, caratteristiche che inducono i suoi allenatori ad impiegarlo come primo riferimento offensivo.
Sulla panchina del Lecce, in quegli anni, siede Delio Rossi, che adocchia il ragazzo e lo porta in prima squadra, dove ha l'opportunità di allenarsi con attaccanti del calibro di Bojinov, Chevanton e Mirko Vucinic.
Lo spazio in prima squadra è poco, ma tanto basta per portarlo a giocare il Mondiale Under20, tenutosi nei Paesi Bassi durante l'estate 2005. Pellè è l'arma in più dell'Italia, che a suon di goal trascina fino ai quarti di finale, persi ai rigori contro il Marocco.

L'esperienza con l'Under20 è importante per la crescita di Pellè, che stenta però a ritagliarsi il suo spazio con la maglia del Lecce. Inizia quindi un lungo viaggio fatto di prestiti in cadetteria, dove dopo un inizio difficile inizia a macinare gioco e reti. A Crotone le prime reti fra i professionisti; con la maglia bianconera del Cesena la prima stagione in doppia cifra, che sembra porterlo portare al grande salto.
Nel suo destino, come per il Mondiale Under20, c'è l'Olanda. Ad aggiudicarselo è l'Az Alkmaar, allenato dal guru olandese Van Gaal, uno che ha pochi eguali al mondo a lavorare con i giovani.
Il santone olandese, reduce dall'esperienza con il Barcellona, intravede in Pellè le potenzialità del campione. Sa che è un diamante ancora grezzo, ma nonostante le difficoltà gli da fiducia. Il centravanti pugliese lo ripaga con tanto impegno e pochi gol. Van Gaal crede nelle potenzialità del ragazzo, ma quando sente la chiamata del Bayern Monaco non può rifiutare. Con l'approdo in panchina di Verbeek il divorzio è inevitabile.

E' Pietro Leonardi a riportarlo in Italia, e Parma sembra la squadra a misura d'uomo che può permettere a Pellè di esplodere definitivamente. Qualcosa s'inceppa, mancano feeling e fiducia, e dopo un anno e mezzo speso fra Parma e Sampdoria, in prestito, le strade si dividono nuovamente. Nemmeno a dirlo la chiamata arriva nuovamente dal paese dei tulipani, più precisamente dal Feyenoord di Rotterdam. Prestito con diritto di riscatto prefissato a 5 milioni di euro, Pellè sbarca alla corte di Ronald "Rambo" Koeman. L'alchimia fra i due è immediata, tanto da portare il Feyenoord a basare il proprio gioco sul terminale offensivo italiano. Con la maglia bianco-rossa di Rotterdam, Pellè esplode letteralmente. E' un po' come se il suo talento, sopito per troppo tempo, riemergesse con la forza di un'esplosione vulcanica. Il suo killer-istinct in area di rigore torna ad essere quello delle giovanili, i portieri orange non hanno scampo. Al primo anno le reti sono 29, il secondo 26. 55 goal in 66 presenze sono numeri mostruosi, che gli valgono finalmente il palcoscenico di un campionato top. La chiamata arriva dalla Premier League, più precisamente da Southampton, dove sulla panchina dei "Saints" si è appena insediato il suo mentore, Ronald Koeman.
Devo ammetterlo, avevo ancora qualche perplessità su di lui, mi sembrava così strano che segnasse a raffica in Olanda dopo aver trovato tutte quelle difficoltà in Italia, ma ho sbagliato. In 7 partite di Premier il bomber leccese ha timbrato 4 volte il cartellino, realizzando una rete meravigliosa in acrobazia contro il Queens Park Rangers.



La continuità in zona gol gli vale il soprannome "the italian goal machine" e, soprattutto, il ritorno in azzurro. Non più la maglia di una giovanile, bensì quella pesante della Nazionale maggiore.
"Speravo di andare in nazionale, quest'anno sono passato in un campionato più importante, avevo possibilità di essere preso in considerazione, il mister lo ha fatto e mi ha convocato". Il futuro è ora nelle sue mani.

7 ottobre 2014

La polemica, l'unico vero male del calcio italiano

Il vero male del calcio italiano è la polemica. Viscerale, perenne, continua. Il calcio è la passione degli italiani, ma ultimamente mi sembra che sia diventato il tiro a segno. Gli arbitri, più ancora dei calciatori, vengono passati ad un accurato screening post-match, andando a vedere qualsivoglia minuzia nella loro direzione. Un malcostume tutto italiano, che sta rovinando il nostro calcio e la nostra cultura sportiva. 
I primi a rendersi conto di questo dovrebbero essere gli addetti ai lavori e i giornalisti, che non perdono occasione di passare al setaccio ogni fischio del direttore di gara. Le interviste post-partita, specialmente su Mediaset, diventano una moderna caccia alle streghe, con presunti opinionisti scatenati e allenatori che attizzano il fuoco meglio della carbonella.

Un malcostume inaccettabile, esploso in tutto il suo clamore dopo Juventus-Roma. Non entro nel merito degli episodi, ma mi limito a evidenziare che alla sesta di campionato si usano parole forti come "sistema", "campionato falsato". Una follia. Lo sarebbe verso fine campionato, figuriamoci ad Ottobre. Prima di parlare di "sistema", credo, occorrerebbe un pochino di onestà intellettuale. Dal Milan di Sacchi e Capello, passando per la Juventus di Lippi o l'Inter di Mancini e Mourinho, hanno sempre vinto i più forti. E sarà sempre così, perchè in un torneo a venti squadre è il più forte a vincere, spesso in maniera netta e definitiva. Pochi campionati si decidono sul filo di lana, e anche questi non sono contraddistinti dai singoli episodi. Penso al duello Juventus-Inter del '98, il cui epilogo non può essere attribuito al solo presunto rigore non concesso all'Inter (dietro in classifica e sotto di un goal in quel match). Ma si pensi anche al nubifragio di Perugia, quando a perdere il titolo fu la Juventus di Ancelotti, rea di aver dilapidato un cospicuo vantaggio in classifica, venendo poi punita dall'acquazzone umbro. C'è stato poi il tricolore che la Roma ha messo in bacheca l'anno successivo, andando a strappare i punti decisivi nello scontro diretto di Torino, schierando Nakata (autore di una rete decisiva) che, fino ad una settimana prima, non avrebbe potuto esser convocato. O, infine, i titoli che Mancini e Mourinho hanno portato in casa Inter, lasciando sempre al secondo posto la Roma di Totti, pronta ad avvelenare i post-partita ad ogni piè sospinto. Non si trattava di una macchinazione allora, non c'è alcun sistema oggi.

Se solo Totti avesse avuto un pochino più di memoria, credo, non avrebbe detto ciò che ha detto a Torino. Ha sparato a zero sulla lega e sul movimento calcistico italiano, reo secondo lui di favorire la Juventus. Eppure non ricorda che proprio questa lega e l'intera architettura del calcio italiano hanno salvato la Roma. Una squadra che ha vinto uno scudetto (non un'egemonia, un solo e unico successo) acquistando giocatori che aziendalmente non poteva permettersi. I vari Emerson, Candela, Cafu, Nakata, Batistuta e Montella, tanto per fare qualche esempio, hanno portato al tracollo finanziario la Roma e la famiglia Sensi. Sommersa dai debiti, (come la Lazio, vincitrice anch'essa di un tricolore), la società giallorossa avrebbe dovuto scomparire e ripartire dai dilettanti. Per evitare sommosse popolari, in una città in cui il tifo è tutt'altro che tranquillo, il "sistema" ha salvato la Roma. Ha evitato a Totti e compagni di fare la fine di Napoli, Torino e Fiorentina. 

Al capitano, poi, si è aggiunto il tecnico Rudi Garcia. Una persona che ho fin da subito reputato elegante e intelligente, capace di parlare un italiano sorprendentemente buono fin dai primi giorni. Eppure, il gesto del violino è una caduta di stile clamorosa. Scimmiottare Mourinho, senza esserlo, non è un vanto. Ancor peggio, però, le frasi a mente fredda. Sostenere che partite così facciano male al calcio italiano è vero, ma da un'altra prospettiva rispetto a quella di Garcia. Il problema non è stato nè l'arbitro nè il risultato, ma il contorno di inutili polemiche. Dalle rumorose parole di Totti e Garcia fino allo stucchevole siparietto fra Sacchi e Allegri, uno spettacolo a cui faremmo tutti volentieri a meno.

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