Esperto di Calcio

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30 settembre 2013

Storie di calcio: Lucas Martin Castroman

Il giocatore di cui parlerò oggi è stato uno dei miei crucci fantacalcistici. Per anni ho aspettato che esplodesse, che diventasse un campione, venendo quasi sempre deluso. Parlo di un argentino, capello lungo, e tiro secco e preciso. Il suo nome, per chi ancora non lo avesse capito, è Lucas Martin Castroman.
Centrocampita esterno di destra, Castroman era veloce, dinamico, generoso e dotato di un buon tiro dalla distanza. Castromàn ha giocato in Italia dal 2001 al 2004, dopo essersi messo in luce in patria, nelle fila del Velez Sarsfield.
Approdato nel mercato di riparazione alla Lazio degli argentini (Juan Sebastian Veròn, Diego Simeone, Claudio el piojo Lòpez, Nestor Sensini), campione d’Italia uscente, venne ingaggiato per essere utilizzato in Champions League. Un acquisto particolare, soprattutto se pensiamo che nella stessa sessione di mercato Cragnotti aveva comprato un certo Karel Poborsky, che aveva però già giocato in partite europee con il Benfica, non potendo quindi aiutare Eriksson e compagni in campo internazionale.



Le aspettative su Castroman erano alte fin da principio, ma Lucas riuscì a deluderle quasi in pieno, segnando solo 4 goal in 2 stagioni e mezzo. La gioia più grande è legata ad un goal alla Roma nel derby al 95′ che fissò il risultato sul 2-2, completando la rimonta laziale contro gli odiati cugini giallorossi.
All’inizio della stagione 2003-2004, Castroman viene trattato come un "pacco celere3" alle poste. Lazio, Udinese e Velez Sarsfield litigano per rifilarsi l’un l’altra il povero Castromàn. Alla fine “la spunta” l’Udinese, squadra in cui l’argentino ovviamente non brilla, maturando poi la decisione di tornare a giocare nella sua vecchia squadra.
Dal 2004 ad oggi, per Castroman è stato tutto un continuo pellegrinare tra Velez Sarsfield (con cui vince comunque il campionato argentino di clausura nel 2005), Club América in Messico, Boca Juniors e Racing Avellaneda, dove chiuderà la carriera nel 2010.

Storie di calcio: il normanno, Emmanuel Petit

Nella Francia dei campioni c'era un giocatore davvero sorprendente. Accanto a campioni del calibro di Thuram, Zidane, Djorkaeff e Deschamps, giocava un ragazzone biondo. Sguardo intenso, un piede normale e un dinamismo straordinario. Sto parlando ovviamente di Emmanuel Petit, campione del mondo nel 1998 ed autore del goal del 3-0 nella finale parigina contro il Brasile. Quella è stata la partita di Zinedine Zidane, ma la griffe del biondo centrocampista normanno rimarrà sempre nella storia del calcio.
Emmanuel Petit inizia la sua carriera da professionista nel Monaco di Arsène Wenger, che lo impiega come terzino e difensore centrale. Petit segue nel 1997 il suo allenatore nell'avventura londinese, dove viene impiegato come centrocampista. All'Arsenal forma con Viera una diga insuperabile di muscoli e tecnica.
Petit e Vieria sono titolari anche nella nazionale francese nei vittoriosi mondiali francesi del 1998: Petit si distingue per un gran goal contro la Danimarca nella fase a gironi, ma soprattutto per la cavalcata che lo porta a segnare il 3-0 contro il Brasile nella finale (e non è certo da tutti segnare il 3-0 contro il Brasile in una finale dei mondiali) dopo aver servito a Zidane l’assist per l’1-0 su calcio d’angolo.



Dopo aver vinto anche l’Europeo 2000 con la Francia, Petit monetizza e lascia l’Arsenal per il Barcelona, dove gioca solo per una stagione tormentato dagli infortuni. L'impiego in difesa, per scelta dell’allenatore Serra Ferrer, convince il buondo francese a cambiare velocemente aria. Dopo una sola stagione Petit torna in Inghilterra, nel Chelsea, dove "svezzerà" una giovane stella del calcio locale. Frank Lampard, appena approdato ai blues dal West Ham, impara in fretta dal francese, formando con lui una coppia molto bene assortita. I guai al ginocchio continuano a tormentare Emmanuel, fino a costringerlo al ritiro nel 2004.
Centrocampista di talento e sostanza, Petit ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto. Nato in un periodo in cui la Francia era stracolma di campioni in mezzo al campo, Petit non era certamente il più talentuoso. Il suo carattere, tipico delle zone del nord, lo porta a non arrendersi mai, superando i propri limiti. Se Vieira, Deschamps e Zidane son stati baciati dalla bontà di madre natura, Petit si è guadagnato con il sudore e la fatica tutto quello che ha vinto. Ho sempre apprezzato giocatori così, e Petit non fa eccezione. Dinamico, con una facilità di corsa fuori dal comune, ed un fisico pazzesco, Emmanuel è stato un grande protagonista del calcio internazionale per almeno dieci anni. Campione del mondo e d'Europa, lo immagino ora accanto a moglie e figli, ad insegnare ai giovani Petit come rinverdire le gesta del papà.

29 settembre 2013

Storie di calcio: the secret tournament, Scorpion knock-out!

Una nave, una gabbia, un pallone. Cosa poteva mancare ad uno dei più begli spot di tutti i tempi? Solo un gruppo di campioni, di calciatori così forti da fare sognare qualsiasi ragazzino. E così, la Nike, a inizio anni 2000 ha stregato una generazione intera.

La trovata, sensazionale sia dal punto di vista del marketing che dello sport, ha portato il colosso dello sport a produrre il più famoso torneo del mondo: "Scorpion knock-out, the cage".
Calciatori del calibro di Ronaldo, Roberto Carlos, Figo, Davids, Henry...che si sfidavano a suon di numeri, trucchetti e magie con il pallone.



Giocate fantastiche, uno spot che rimarrà per sempre nei miei occhi e nel mio cuore. E come me, anche negli occhi e nelle menti di tutti gli amanti di questo magnifico sport. Quando la classe incontra l'imprevedibilità il mix è perfetto.
Questa la storia del torneo:

"The Secret Tournament" (conosciuto anche come "Scorpion KO") è il nome di una campagna pubblicitaria che la Nike ha messo in atto in vista dei Mondiali di Calcio del 2002, che si sono svolti in Giappone e Corea del Sud. L'intera campagna ha avuto un budget stimato di 100 milioni di dollari[1], il copywriter è stato Tim Wolfe e l'art director Frank Hahn
Lo spot, che vedeva la partecipazione di 24 fra i più famosi calciatori dell'epoca e di Eric Cantona nella parte dell'arbitro, è stato diretto dal pluripremiato regista e ex membro dei Monty Python Terry Gilliam, ha come direttore della fotografia Nicola Pecorini e come scenografo Stefano Maria Ortolani. Le riprese sono avvenute nel dicembre 2001.
La prima fase della campagna, definita tease o anticipazione, ha preso il via nel marzo 2002 e consisteva in cartelloni e brevi filmati in cui comparivano solo un paio di scarpe da calcio e uno scorpione. Questi prime inserzioni invitavano il pubblico a visitare un sito web recante informazioni riguardo al Secret Tournament: in questo stesso sito era anche possibile divertirsi con giochi interattivi prodotti per l'occasione[1]. La seconda fase, definita excite o eccitazione, è partita in aprile con il lancio dello spot vero e proprio; infine è seguita la fase involve o coinvolgimento (vedi L'impatto della campagna)
Lo spot, della durata di tre minuti, segue lo svolgimento di un torneo di calcio cui partecipano otto squadre composte ciascuna di tre fra i migliori giocatori del mondo. Le partite si svolgono in una gabbia metallica all'interno di una nave al largo, e prevedono la vittoria della squadra che per prima riesce a segnare un gol. Arbitro, commentatore e padrone di casa è l'ex campione Eric Cantona. Come si evince dal finale, la sorte per i perdenti prevede il ritorno a riva a nuoto, al grido di "All losers go home".
Colonna sonora dello spot è "A Little Less Conversation", un classico di Elvis Presley nella versione remixata da Junkie XL, che grazie anche allo spot diventa un vero e proprio tormentone dell'estate.

Le squadre:

Il torneo e i vincitori:

Henry, Totti e Nakata...mica male.

Storie di calcio: l'ottavo re di roma, Francesco Totti

Francesco Totti è ed è stato un grande campione. Personalmente l'ho sempre un pò visto come un "nemico" di Del Piero, e prima del 2006 non sono mai riuscito ad amarlo a dovere. Dopo il Mondiale, però, ho capito quanto dovessi avere rispetto e ammirazione per un grande campione. Se dovessi scegliere fra Alex e Francesco, sceglierei il capitano bianconero, ma questa è un'altra storia. Totti merita rispetto, applausi e ammirazione. Per festeggiare i suoi 37 anni, di successi e goal, ecco un interessante articolo. Fantagazzetta, nella persona di Elio Goka, ripercorre la sua carriera, a partire da quel benedetto cucchiaio ad Euro 2000, che lo ha reso una star.

Dal Memento su Euro 2000

LIEGI, 10 GIUGNO 2000. L’undicesima edizione dei campionati europei vede sedici squadre ammesse alla fase finale dell’europeo.

ARNHEM 11 GIUGNO 2000. Dopo la partita d’esordio tra Belgio e Svezia, vedente vincenti i padroni di casa, è la volta dell’Italia, che si vede contrapposta la Turchia del futuro interista Hakan Sukur. La formazione italiana messa in campo da Zoff è priva però di Gian Luigi Buffon. Il portiere titolare della nazionale azzurra deve infatti rinunciare per un infortunio alla mano occorso nel test pre-europeo contro la Norvegia qualche giorno prima dell’avvio della competizione. Una grossa perdita per gli azzurri che devono sostituire il giovane portiere parmense con Francesco Toldo. La gara è sulla carta piuttosto abbordabile, ma non sul campo. La Turchia è squadra insidiosa: al gol di Conte risponde un acuto di Okan Buruk e solo una difesa granitica e un rigore discutibile finalizzato da Inzaghi al 70esimo fanno portare a casa i 3 punti a capitan Maldini e compagni. Nella seconda gara invece, nonostante l’avvio incerto con i turchi, gli azzurri conquistano con un turno di anticipo la qualificazione, a spesa proprio dei padroni di casa del Belgio con i gol di un giovane Francesco Totti e di Stefano Fiore.

EINDHOVEN 19 GIUGNO 2000. L’ultima gara del girone, disputata in Olanda, vede la formazione italiana rimaneggiata, avendo ormai già ottenuto la qualificazione, opposta alla cenerentola del girone, la Svezia di Henrik Larsson, ancora in corsa per la qualificazione al secondo posto. Nonostante la formazione ampiamente rivoluzionata, gli uomini di Zoff riescono ad ottenere la terza vittoria su tre gare, battendo anche gli svedesi con gol di Di Biagio e Del Piero nei minuti finali del match. In mezzo il pareggio svedese proprio ad opera del giocatore simbolo, Larsson, il quale assieme ai compagni dovrà lasciare anticipatamente la competizione. Nell’altro incontro è invece la Turchia ad avere la meglio contro un Belgio deludente e rinunciatario. Turchi avanti 2 a 0 grazie alla doppietta di Hakan Sukur e padroni di casa sorprendentemente eliminati. La situazione negli altri gironi è come da pronostico tranne che per il gruppo A. L’Inghilterra e la Germania, favorite, vengono sorprendentemente eliminate dal Portogallo di Luis Figo e del bomber Nuno Gomes che fa da padrone del girone, vincendo tutte e tre le gare. Ma ancora più sorprendente è il secondo posto della Romania che, dopo aver fermato la Germania all’esordio, riesce nell’impresa di battere l’Inghilterra nell’ultima partita del girone, al termine di un incontro mozzafiato: rumeni avanti 2 a 0 con un giovanissimo Cristian Chivu e gol del più navigato Muntenanu; pareggio inglese con Alan Shearer e Owen nel giro di cinque minuti. Agli inglesi basterebbe il pareggio per passare come seconda ma ad un minuto dalla fine dei tempi regolamentari viene fischiato un rigore a favore dei rumeni, trasformato da Ganea. Inghilterra fuori assieme ad una deludente Germania, che, nonostante quattro anni prima avesse alzato il trofeo continentale, si accomoda all’ultimo posto del girone con un solo punto. Il gruppo C si conclude senza sorprese, primo posto della Spagna e secondo della Jugoslavia a scapito di Norvegia e Slovenia. Emozionante l’ultima partita del girone che vede proprio gli iberici opposti agli slavi. Finisce 4 a 3 in favore degli spagnoli, dopo che le Furie Rosse perdevano 3 a 2 fino al 90esimo ed erano matematicamente eliminate dal girone. Pareggio su rigore di Mendieta e gol vittoria di Alfonso al 95esimo. Anche nel gruppo D nessuna sorpresa, passano il turno Olanda e Francia, nonostante il duro girone, che le aveva viste contrapporsi la Repubblica Ceca di Nedved e Poborsky finalista quattro anni prima e la Danimarca, vincitrice dell’europeo del 1992.

BRUXELLES 24 GIUGNO 2000. L’euforia nelle case italiane è grande: girone dominato, tre partite su tre vinte, e complice anche un quarto di finale abbordabile, gli azzurri cominciano a sognare. A sbarrare la strada a Zoff c’è la rivelazione del torneo, la Romania. L’ex portiere della nazionale e campione del mondo è guardingo e non sottovaluta per niente l’avversario, ritenuto dai media alla nostra portata. La partita è a senso unico. L’Italia riesce a trovare il vantaggio grazie a Totti e dieci minuti dopo a raddoppiare con Inzaghi. Nel secondo tempo la nazionale si limita a controllare il risultato e arriva così al triplice fischio dell’arbitro la qualificazione alla semifinale. La festa è però rovinata da un bruttissimo fallo di Hagi ai danni di Conte, il quale deve lasciare la comitiva azzurra. È un brutto colpo per la squadra, che perde così uno degli uomini più in forma del torneo. Gli altri quarti si concludono senza sorprese. Con un impressionante 6 a 1 la schiacciasassi Olanda distrugge Milosevic e compagni e si candida prepotentemente come favorita dell’europeo. Ed è proprio l’Olanda l’avversario degli azzurri….

AMSTERDAM 29 GIUGNO 2000. L’Amsterdam Arena è una bolgia, un girone infernale colorato di arancione. Una semifinale dell’europeo, una partita da dentro o fuori con i favoriti, sale la tensione, le squadre entrano in campo. Questi i primi ricordi che ho di quella partita, una delle prime partite che ho guardato e che mi hanno fatto avvicinare al mondo del calcio e innamorare di questa nazionale, di questa casacca azzurra . Le squadre entrano in campo: esplode lo stadio. L’avvio dell’Italia è timido, impacciato. Complice il tifo avversario che funge da 12esimo uomo e la strepitosa condizione atletica degli Orange, è la squadra olandese a fare la partita. Partita che si complica ulteriormente al 33esimo, quando Zambrotta viene espulso per due ammonizioni guadagnate nel giro di pochi minuti. Partita in salita per l’Italia quindi: 10 contro 11 in casa di una delle avversarie più temibili dell’europeo. La squadra di Rijkaard domina l’incontro, va più volte vicina al gol ma grazie al catenaccio della difesa italiana non riesce a finalizzare le numerose occasioni create. Il pressing olandese è asfissiante e al 40esimo del primo tempo l’arbitro Merk fischia un calcio di rigore in favore dei padroni di casa. Ed è qui che sale in cattedra Francesco Toldo. Il portiere di Padova, secondo di Buffon, non sa ancora che questa sarà la giornata più lunga e importante della sua carriera. Sul dischetto và Frank De Boer, specialista dei calci piazzati. Il boato dello stadio, rincorsa, tiro, un attimo di silenzio...PARATO !!! Lo stadio è ammutolito.
Solo uno sparuto gruppo di tifosi italiani urla a squarciagola e tira un sospiro di sollievo. Toldo ha appena compiuto il suo primo miracolo. Non sarà l’unico della partita. Si va negli spogliatoi, si ritorna in campo e dopo un quarto d’ora secondo rigore per l’Olanda. Questa vola dal dischetto si presenta l’ex milanista Kluivert, capocannoniere del torneo. Toldo non para, ma la palla si stampa sul palo. Partita maledetta per gli Olandesi che nel giro di venti minuti sprecano due rigori. L’Italia, ringrazia la dea bendata, prova a ripartire in contropiede per affondare la corazzata olandese ma non riesce nell’intento. Nonostante il grosso contraccolpo psicologico subito, Kluivert e compagni non si scompongono e reggono la timida reazione italiana. Si va ai supplementari, le squadre sono distrutte, ci si trascina in campo e si disputano i trenta minuti di supplementare con lo spettro del golden gol. Uscire così sarebbe terribile per entrambe le squadre. Per l’Olanda, dominatrice dell’incontro e per l’Italia che nonostante l’uomo in meno e il tifo avversario è riuscita ad arrivare fino a quel punto, ad un passo dalla finale. Il triplice fischio dell’arbitro sancisce la fine della partita e l’inizio della lotteria dei rigori. Toldo fino a quel momento perfetto si supera e compie altri due miracoli. Para il secondo rigore a Frank De Boer e dopo avere visto quello di Stam volare alto sopra la traversa, para anche l’ultimo rigore olandese a Bosvelt. I cecchini italiani non sbagliano: prima Di Biagio e Pessotto realizzano i primi due rigori, poi Totti spiazza Van Der Sar con quel colpo che verrà ricordato come “cucchiaio”. È finale! Dopo anni di anonimato in campo europeo, l’Italia può bissare il successo ottenuto nel 1968, 32 anni dopo l’unica finale disputata. Avversario l’odiata Francia di Zidane e Henry sbarazzatasi del Portogallo nell’altra semifinale.

ROTTERDAM 2 LUGLIO 2000. A due anni di distanza da quel afoso pomeriggio di luglio, dove le speranze mondiali italiane si infransero sulla traversa all’ultimo rigore tirato da Di Biagio, l’Italia ha, come nei più impensabili film thriller, l’occasione per vendicarsi. Italia - Francia è un inedita finale europea. Mai le due squadre si erano trovate davanti in una finale, ma nei cuori italiani brucia ancora la sconfitta ai rigori nel quarto di finale del mondiale francese. Tutto è pronto. Le due squadre scendono in campo in un De Kuip Stadion gremito di gente. La formazione italiana parte leggermente sfavorita nei pronostici, anche se i bookmakers dopo la vittoria contro i padroni di casa Olandesi hanno ridotto le quote. Dall’altra parte una Francia favorita, che dopo il successo mondiale vuole assolutamente anche il titolo europeo per una personalissima “doppietta”. Ma è la formazione italiana a fare la partita. Il match viene interpretato bene dagli azzurri che non si limitano a subire come con gli olandesi ma impostano la manovra e spaziano su tutto il fronte d’attacco. Il primo tempo finisce però a reti bianche, l’Italia, nonostante la superiorità espressa non riesce a trovare la via del gol. Gol che però è nell’aria. Dopo soli dieci minuti dall’inizio della ripresa, Totti, con un pregevole colpo di tacco, smarca Pessotto: il terzino della Juve crossa per Del Vecchio che solo davanti a Barthez non sbaglia. 1 a 0 per gli azzurri e sogno che comincia a diventare realtà. La squadra è carica, si difende ma riparte anche bene. Del Piero potrebbe assestare il colpo del K.O al 60esimo ma spreca davanti al portiere francese calciando a lato. Totti è in giornata: confeziona assist su assist che gli attaccanti là davanti sprecano, prima Del Vecchio, poi di nuovo Del Piero. La partita è agli sgoccioli, il 90esimo è scoccato, gli urli di gioia stanno per esplodere dalle gole di centinaia di migliaia di tifosi italiani, migliaia di bandiere stanno per essere sventolate in piazza ricolme di gente: sembra un sogno. Ma è un sogno destinato a diventare un incubo. Negli ultimi secondi la Francia trova l’inaspettato pareggio con Wiltord, subentrato ad uno spento Dugarry, con un rasoterra angolato che supera Toldo. È l’inizio della fine. Gli urli vengono ricacciati in gola e sostituiti da mesti silenzi, le bandiere smettono di sventolare. La delusione ha preso il sopravvento. Si va ai supplementari. L’Italia subisce il pesante contraccolpo psicologico. È in balia della Francia e al 103esimo capitola. David Trezeguet, futura stella juventina, punisce la squadra italiana con un gol agli sgoccioli della fine del primo tempo supplementare. È il golden gol che manda la Francia in paradiso e l’Italia all’inferno. Una beffa per tutti i tifosi azzurri che come me avevano assaporato la vittoria finale. Una beffa per i giocatori italiani, che si erano conquistati la finale con la fatica e il sudore. Le lacrime scendono dai volti attoniti dei tifosi, Zoff va a consolare i ragazzi in campo, seduti per terra increduli della beffa subita. Purtroppo è il gioco del calcio, un gioco divertente, accattivante, ma a volte anche amaro e crudele.

Dal Memento sullo scudetto della Roma nel 2001

Al novantesimo campionato di Serie A tutte le piu' grandi squadre si presentano rinnovate e pronte ad affrontare una nuova esaltante stagione. La Lazio campione in carica conferma il blocco vincente e ingaggia in attacco la coppia argentina Crespo e Claudio Lopez rispettivame nte da Parma e Valencia.

TORINO, 6 MAGGIO 2001. A sei giornate dalla fine al Delle Alpi la Roma fa visita alla Juventus con sei punti di vantaggio, e' la gara che potrebbe riaprire i giochi scudetto ma anche quella che li potrebbe chiudere.
Dopo 6 minuti Del Piero e Zidane portano la Juventus gia' sul 2-0 e i bianconeri sembrano controllare agevolmente la gara. Capello a quel punto compie l'ennesimo capolavoro tattico dalla panchina inserendo a inizio ripresa Montella e Nakata per gli evanescenti Del Vecchio e Totti nella speranza di ribaltare il risultato. Il finale della partita e' di quelli thriller: al 79' Nakata accorcia le distanze e al 91' Montella approfitta di una parata imperfetta di Van der Sar per ribattere in rete e il pallone e siglare il clamoroso 2-2 che manda in estasi gli oltre 8000 tifosi giallorossi giunti a Torino quella sera. La corsa per lo scudetto è game over, resta da raggiungere solo la certezza matematica.

ROMA, 17 GIUGNO 2001. All' Olimpico la Roma affronta all'ultima giornata il Parma. Chi sperava in clamorose debacle all'ultima giornata vede subito deluse le proprie speranze: il magico trio Totti-Montella-Batistuta distrugge gli emiliani e la rete di Di Vaio nel finale non cambia l'esito: Roma campione d'Italia. La clamorosa debacle all'Olimpico all'ultima giornata sarebbe avvenuta 11 mesi dopo nel piu' famoso dei 5 Maggio.
Antonioli in porta, la rocciosa difesa sudamericana Aldair-Samuel-Zago; gli stantuffi inesauribili Cafu e Candela sulle fasce; Tommasi, Cristiano Zanetti ed Emerson ad alternarsi alla guida del centrocampo; Totti, Batistuta e Del Vecchio in attacco con Montella che quando gioca timbra sempre in rete: la Roma sogna e fa sognare i propri tifosi.

Con la vittoria della Roma chiude i battenti una stagione tra le piu' emozionanti e discusse.
Nell'intervallo di Juventus-Atalanta la dirigenza juventina comunica ad Ancelotti il suo licenziamento nonostante i 144 punti raccolti in due stagioni. La triade aprira' un nuovo ciclo con il Lippi bis e dopo aver ceduto Inzaghi al Milan, il deludente Van der Sar in Inghilterra e soprattutto Zidane al Real Madrid, portera' a peso d'oro a Torino un big per ruolo: Buffon-Thuram-Nedved-Salas.
L'Inter esce dalla stagione a pezzi ed esonera Tardelli per Cuper, la maledizione continua. La Fiorentina dopo l'esonero in corso di Terim conclude la stagione con la conquista della Coppa Italia. Sulla panchina viola debutta un giovanissimo allenatore destinato a fare strada: Roberto Mancini.
Oltre a Roma e Juventus in Champions League vanno anche la Lazio (che durante l'anno aveva sostituito Eriksson con Zoff) e il Parma (via Malsani per Sacchi prima e Ulivieri poi). I gialloblu alla terz'ultima giornata colgono un'importantissima vittoria nella decisiva gara di Lecce, il match winner Patrick Mboma non esulta dopo una rete e spiega il suo gesto come forma di rispetto per la drammatica situazione in classifica dei salentini, salentini che pero' all'ultima giornata battendo la Lazio in rimonta con doppietta di Vasari si salvano per il rotto della cuffia. Ad andare in B sono il Bari, il Napoli, il Vicenza e la Reggina che perde lo spareggio salvezza contro il Verona.
Crespo conquista il titolo di capocannoniere con 26 reti dinanzi a Shevchenko, Chiesa e Batistuta.
La stagione europea e' fallimentare per le squadre italiane: in Champions la Juventus viene eliminata al primo turno finendo ultima il proprio girone dietro a Deportivo, Panathinaikos e Amburgo; Lazio e Milan escono nella seconda fase a gironi cosi' nell'edizione che vede la finale di scena a Milano non ci sta nemmeno una squadra italiana ai quarti.
In Coppa Uefa la Fiorentina esce al primo turno contro gli austriaci del Tirol Innsbruck, l'Udinese al secondo turno ai supplementari contro i greci del Paok mentre agli ottavi escono tutte le altre: Roma eliminata dal Liverpool (perde 2-0 a Roma e vince 1-0 in Inghilterra con forti proteste contro l'arbitro), il Parma esce col PSV Eindhoven per via delle reti in trasferta, l'Inter dopo il 3-3 in Spagna perde 0-2 in casa con l'Alaves.

Quella appena raccontata e' stata una stagione ricca di emozioni ma anche di molte perplessita'.
Dalla storia dei Rolex della Roma alle accuse per doping contro la Juventus, dalla Fiorentina e il Napoli che si avviavano inesorabilmente sulla via del fallimento ai debiti di Lazio, Roma, Parma e altre societa'.
I detrattori degli scudetti delle romane sostengono la falsita' dei campionati dimostrata dai debiti, dalle plusvalenze, dalle fideiussioni etc., i detrattori della Juventus sostengono il processo per doping e la cupola che pochi anni dopo sarebbe frantumata con calciopoli.

A noi romantici del calcio quella stagione piace ricordarla per le emozioni regalate dal campo, dai gol di Crespo e dell'implacabile Montella alle giocate di Zidane, dal Perugia dei miracoli ai tiri da fuori di Chiesa, dalle pennellate bresciane di Baggio alle reti decisive di Nakata.
Il calcio infatti prima che delle polemiche arbitrali, che degli scandali finanziari e dei processi giudiziari e' infatti una cosa sola: poesia.





Il Memento del Mondiale vinto dall'Italia nel 2006

DESKTOP.
Gli Italiani vivono il Mondiale tedesco dopo aver assistito ad un burrascoso ribaltone politico. Pochi giorni prima, difatti, Prodi e la sua coalizione avevano battuto Berlusconi ed il centrodestra grazie ad una manciata di voti di scarto alla camera. Il governo si forma, ed intanto infuriano le polemiche e la convulsione politica: il termine "brogli " entra ufficialmente nel gergo popolare quotidiano. Ma la concitazione prevarica anche la politica. Il 16 Giugno viene arrestato, con le accuse di corruzione, associazione a delinquere e sfruttamento della prostituzione, Vittorio Emanuele di Savoia. Intanto, si va al referendum: gli elettori respingono il premierato, la devolution ed il Senato federale della Repubblica. Ma calcio e quotidianità, intanto, non esitano a fondersi in un'unica e rovente querelle che da qualche mese è scoppiata - furente - a sconvolgere l'intero universo pallonaro italico: Calciopoli.

PLAY.
Maggio 2006, solo due mesi prima dell'orgasmo nazional-popolare. Intercettazioni telefoniche. Moggi, Pairetto, Giraudo. Decine di partite sotto inchiesta, sei società coinvolte, dieci dirigenti accusati di frode ed illecito sportivo. Dimissioni e sospensioni incalzano. In questo clima arroventato, la Nazionale, a Coverciano, si ritrova per preparare la spedizione mondiale, con Buffon, Cannavaro, e lo stesso Lippi messi pesantamente in discussione dai media.

L'opinione pubblica tanto ricrea, a sfumate tinte, l'immagine d'un bimbo cui è stata rubata la fantasia, e che vegeta, mogio, in uno stato emotivo che taglia la rabbia con grossi margini di malinconia. In quei giorni gli azzurri, nervosi ma responsabilizzati dal Beckettiano clima che li ospita, prevaricano la mera professione calcistica, e diventano dei motivi. La Nazionale diventa l'unico appiglio per milioni di appassionati, l'unico motivo per cui continuare a sognare, tifare, vivere.

Lippi, intanto, deve scegliere. Sceglie di portare con sè Gattuso, reduce da un brutto infortunio: "sarebbero serviti i carabinieri per portarmi via dal pullman". Sceglie Totti, appena tornato a calcare i campi dopo l'entrata assassina di Vanigli di quattro mesi prima. Sceglie Toni a guidare l'attacco, sceglie il giovanile furore agonistico di De Rossi, sceglie l'oriundo Camoranesi, lo stoico Iaquinta, l'eterno Inzaghi.
Una Nazionale tutta fatta d'amore. Una squadra mediterranea. Che sa di tricolore. Di passione, tanto italiana quanto provinciale - nel senso buono del termine - nei visi, nelle parole, nell'essenza stessa dei 23. Impiantata su un gruppo che era nato, anni prima, nell'Under, e che poi era cresciuto, gomito a gomito, nella Nazionale maggiore. Garibaldini, folkloristici, belli, uniti: per sette di loro, è l'esordio ad un Mondiale.

Hannover, 12 Giugno, Italia - Ghana.
Dieci minuti prima di entrare in campo, sto lì con la testa china, cerco il massimo della concentrazione, poi l'allenatore mi dice le ultime cose, già le so, me le ha dette 100 volte. Le ho pensate 1000. Poi c'è il rito, ogni squadra ha il suo, un urlo forte e siamo pronti, adesso ci siamo, adesso andiamo fuori, adesso andiamo a vincere. Fabio Caressa.
Non c'è studio, non c'è tempo per pensare, si comincia. Gilardino sfiora il gol, poi Toni stupra la traversa. Gli Africani tengono, Essien ed Asamoh ci provano. Al 41' Totti, dall'angolo, serve Andrea Pirlo nei pressi del vertice sinistro alto dell'area. Andrea decide di mettere in mezzo forte a giro, Gila si abbassa e la lascia passare. Si gonfia la rete: è il nostro primo gol mondiale.
Nella ripresa non ci chiudiamo, conteniamo e ripartiamo veloci: Buffon, intanto, vigila da maestro.
Entra Iaquinta, al debutto. Irriverente, sciolto, con il tagliente e morbido sguardo che tanto sa delle sue Calabrie. Ed in maniera altrattanto tagliente, ruba palla ad un difensore ghanese, e la appoggia in rete. Finisce sul 2-0 l'esordio Mondiale: ma per i tifosi è ancora troppo poco per soffocare la delusione.

Kaiserslautern, 17 Giugno. Italia - USA.
Abbiamo sofferto con loro e per loro, abbiamo cantato le loro canzoni, abbiamo visto e amato i loro film, abbiamo mangiato i loro panini e indossato i loro jeans, li abbiamo visti volare a canestro e raggiungere la Luna. Ma il calcio è un'altra cosa; nel calcio vogliamo comandare noi! F.C.
Sono in 20 milioni davanti alla TV, per la seconda uscita azzurra contro gli americani. Nelle case, comincia a scatenarsi un motivetto, made in White Stripes, destinato a fungere da colonna sonora di qualcosa che andrà oltre la vittoria: qualcosa di viscerale e simbiotico. Gli USA partono forte. Al 22', però, l'amato poporoppoppopòpò viene bruscamente interrotto da una lieta sinfonia di violino. Pirlo è il liutaio Stradivari, Gilardino lo suona, candido come non mai: il suo colpo di testa in tuffo è una cartolina di Monet.
Tutto troppo bello per esser vero. Il fato lo sa, e sceglie il buon Zaccardo per ripristinare gli aurei equilibri. Il giovane difensore è tanto goffo, nell'autorete, quanto tenera è la reazione dei compagni, che lo rincuorano con un affetto che rasenta quello materno. Rimarrà l'unico gol su azione che prenderemo nell'intero torneo. Ma c'è di più. Le vibrazioni di cui gode De Rossi - che si scioglierà in un dilaniante pianto - diventano un ingenuo gesto che ci mette con le spalle al muro. Un punto portato a casa, una marea di recriminazioni, ma soprattutto un motivo in più, per una certa viscida stampa, per tornare a sferrare il colpo.

Amburgo, 22 Giugno. R.Ceca - Italia.
Il coraggio non è mai stato non avere paura. Le persone coraggiose sono quelle che affrontano i loro timori e le loro incertezze; sono quelle che le ribaltano a loro vantaggio usandole per diventare ancora più forti; negli occhi dei nostri, oggi, forse c'è anche un po' di timore, come sempre quando arrivi a un momento decisivo. Coraggio, azzurri. F.C.
Ci serve la vittoria per qualificarci, ma anche il pareggio potrebbe bastare. Gattuso, cauto e scaramantico, già ha preparato la valigia, Nedved e Lippi s'abbracciano. Poi è proprio l'indemoniato Pavel a dare il La al clamoroso pomeriggio di passione di Gigi Buffon. Il ceko è incontenibile violenza fatta tiratore ambidestro, la sfida personale tra lui e Gigi tanto ricorda quella tra Rocky Balboa e Ivan Drago. Cellulosa e calcio insegnano chi l'ebbe vinta. Nesta si fa male, ed abbandona la contesa: il suo mondiale, per la terza volta consecutiva, finisce anzitempo. Fato incontenibile ed irriverente: al suo posto, in campo, entra colui che scriverà il futuro. Marco Materazzi, che lotta come un leone indomabile, e che, sempre dal fato e dal piede cartesiano di Totti, riceve un cross che tramuta in gol. Il suo primo gol azzurro è un - primo - cenno divino.
Poi arriva, inevitabile, ed a suo modo, la firma del Matusalemme del gol. Solo davanti a Cech - e con Barone, liberissimo, al suo fianco, completamente ignorato come nel più classico degli Inzagol - supera il portiere e scoppia nella smorfia che tuttora continua a propinarci. Eterno, infinito, insostituibile.

Kaiserslautern, 26 Giugno. Italia - Australia.
Oggi siamo esploratori di un continente ignoto. Non sappiamo fino a dove si estende; non sappiamo cosa ci troveremo di fronte. Ma abbiamo delle certezze. Il cammino è ancora lungo, il campo base è alle spalle. Abbiamo lasciato lì le nostre paure. Vogliamo andare avanti. Fino all'Eldorado. F.C.
Lippi ha appena sfuriato la sua tensione repressa contro i giornalisti. E sorprende il mondo intero lasciando Totti in panchina, con Del Piero in campo, all'esordio dal 1'. Guus Hiddink, verso il quale avevamo un enorme debito in sospeso, non si lascia spiazzare. Manda in campo una formazione quadrata e chiusa che difficilmente si lascia ferire. Toni fa a sportellate, Gila incalza, i canguri picchiano come fabbri. Materazzi soffre il clima nervoso del match, e paga in maniera eccessiva un contrasto duro: secondo rosso in 4 match per la nostra spedizione, ed un'infinita passione di biblica memoria destinata a finire bene. Lippi gioca la sua ultima, e fatata carta: Totti.
Che lancia largo, a sinistra, l'uomo della Provvidenza divina: Fabio Grosso. Astuto, dinocolato, osannato dai compagni, guadagna al 95' un rigore destinato ad entrare nella memoria collettiva. Tribolata la scelta del tiratore.
"Chi lo doveva tirà? Io? Se non lo tirava lui...". Queste parole sono di Rino Gattuso. Il 'lui' citato è Francesco Totti. Gelido, sulle spalle e nel cuore ha una nazione intera. Altro che cucchiaio. Il suo tiro è un coltello affilatissimo che ci porta dritti ai quarti. Con tanti saluti a Guus Hiddink che , stavolta, non ci ha fregato. Qualcosa stava cambiando.

Amburgo, 30 Giugno. Italia - Ucraina.
C'è un limite nella vita di uno sportivo, un muro che divide la normalità dall'eccellenza. Può essere un momento o una partita come questa. Se hai la forza di superarlo puoi alzare gli occhi, guardare la luce e pensare di non avere più confini. F.C.
Vigilia del match. Oddo, barbiere improvvisato del gruppo, ed unico giocatore di movimento ancora mai sceso in campo, viene chiamato da parte da Lippi, che gli chiede se si sentisse pronto. Lui risponde di sì. "Allora passa in camera, più tardi, e dammi una spuntatina ai riccoli, per favore". Questo è il gioioso e leggero clima prepartita che si vive in ritiro. Interviene ancora una volta l'ambiguità del destino a rovinarlo. La triste parentesi che Gianluca Pessotto apre nella storia del Mondiale 2006 è tanto morbosa ed avvilente, quanto confortante e vitale è la fine dell'avventura sua, personale, e del gruppo azzurro.
La sfida contro l'Ucraina, insomma, racconta d'un motivo in più per essere combattuta. C'è la consapevolezza d'essere più forti, la rabbia repressa per l'amico sofferente. E Zambrotta questo lo sa. Invocato da Cannavaro due giorni prima del match, arriva il suo gol dopo pochi minuti, alla fine d'un'incontenibile e stupenda azione personale. Buffon tiene, Camoranesi ci prova. E Toni decide ch'è arrivato il suo momento. Bloccato nelle precedenti 4 partite, sigla una doppietta da inguaribile bomber di razza. Poi arriva anche il momento dell'esordio di Oddo. Cui, stavolta, Lippi non chiede di armarsi di forbice e pettine, ma di scarpette e buona volontà.
Le strade italiane cominciano ad animarsi: la semifinale c'attende. Pessotto sta meglio.
Inno alla gioia.


Dortmund, 4 Luglio. Germania - Italia.
Sono 600mila gli italiani di Germania. Alcuni vivono qui da sempre, non hanno mai rinnegato la loro terra. Quanto conta per loro oggi, i nostri giocatori lo hanno capito. Glielo hanno letto negli occhi, in questi giorni, quando si sono fatti abbracciare. Adesso c'è una cosa in più per cui lottare; soprattutto per chi vive qui. Oggi essere italiani, conta di più! Dal Westfalen Stadium di Dortmund, Italia-Germania, l'appuntamento con la storia. Qui c'è il tifo più rumoroso, qui c'è il clima e lo stadio più inglese, qui la Germania non ha mai perso, qui giochiamo contro tutti, fuori casa come di più non potremmo essere! F.C.
Vittoria dopo vittoria, il disincanto degli italiani nei confronti degli azzurri s'è tramutato in zuccherina ammirazione. A risvegliare poi del tutto l'orgoglio nazionale sopito, ci pensano i quotidiani tedeschi, sulle cui prime pagine campeggiano, arroganti, gli sfottò e gli insulsi insulti verso gli italiani "parassiti e nullafacenti".
C'è di mezzo la storia tra Italia e Germania. C'è un'incontenibile voglia di vincere. C'è rabbia. C'è il Westfalenstadion. Un'arena truculenta al cui confronto l'inferno diverrebbe una culla per infante. C'è di mezzo una partita dura ed inenarrabile, che racconta dei pericoli minacciati da Klose e Podolski, d'un Cannavaro che, quel giorno - parole di Lippi - non avrebbe fatto passare manco sua mamma e suo papà.
Ma c'è pure la divina Provvidenza. Sottoforma d'un ragazzo - mio Dio, Fabio Grosso - nato nella benevola Chieti, 29 anni prima, e che, delle sue terre, si porta dietro tutta l'infinita, umana generosità, che si riesce a far sgorgare dalle proprie viscere e dai propri polmoni. Che sigla, al 119', il più stoico ed immaginifico dei gol, servito direttamente dal Dio del calcio, migrato, per una frazione di secondo, nel geniale scarpino di Andrea Pirlo.
Seguito dall'ultimo dei nostri attaccanti ancora non andato in rete. Del Piero, che trova, in quel piattone destro che vìola l'incrocio dei pali, il momento - forse - più alto della sua carriera. Klinsmann è una glaciale stalattite.
Proprio come in un'altra, celebre notte di ben 36 anni prima, sono i supplementari a divenire un'orgia di entusiasmo, ed al contempo un pezzo di storia contemporanea. La voce di Nando Martellini risuona nel cuore pulsante del Belpaese.
Perchè il destino lo sa che la pizza è più buona di Wurstel e crauti. Tutti a Berlino. A vedere se gli spaghetti sono più buoni financo della nouvelle cuisine.


Berlino, 9 Luglio. Italia - Francia.
Appena arrivato in postazione mi sono inginocchiato, ho baciato le cuffie, il tavolo, e ho ringraziato Dio, a mio modo. Poi la tensione ha avuto il sopravvento, e ho cominciato a piangere. Forse ho stabilito un record. Un lungo pianto di quindici minuti, in alcuni momenti intervallato da singhiozzi. Ora sono pronto a cominciare. F.C.

* * * * *

"E' impensabile che uno se ne vada a dormire, tranquillo, prima di una finale del Campionato del Mondo". M. Lippi.
"Più vedevo Andrea (Pirlo, n.d.r.) che se ne stava lì, tranquillo, più mi faceva una rabbia che lo volevo spaccare in due". R. Gattuso.
"Andiamo, perchè non ce la facciamo più". L. Toni.
"Sentivo il cucchiaino toccare la tazzina, nella merenda del prepartita". D. De Rossi.
"Non toccatela la Coppa, non la guardate, anche se ci passate a fianco". R. Gattuso.

Nessuna introduzione sarebbe meglio della viva voce dei protagonisti di allora. Ciò che accadde in finale è talmente stampato ad inamovibili e chiari caratteri nella nostra memoria collettiva, che si preferisce solo riportare le parole che mai e poi mai cancelleremo dalle nostre menti. Chiudete gli occhi, e provate a ripeterle ad alta voce, e rivedrete tutto, nitido come non mai. E' il nostro recente passato, non solo calcistico.

"Malouda! Calcio di rigore [...] È pronto Zidane......Traversa traversa! Non è gol non è gol..." Fabio Caressa. "È gol, è gol...". Beppe Bergomi. "...Ha segnato Zidane". Fabio Caressa.
"E' stato un mezzo cucchiaio: un loft". F. Totti.
"La rabbia negli occhi". F. Cannavaro.
"È pronto ad andare Pirlo, sul secondo palo... il pallone arriva... GOL! Materazzi! GOL! Materazzi! Siamo ancora vivi!". F. Caressa.
"La giustizia divina, dopo aver commesso parecchi errori nella mia vita calcistica. L'ho dedicato a mia madre. Punto". M. Materazzi.
"Zidane... apre sulla fascia Zidane... Sagnol va al cross...Buffon! Buffon!" F.C.
"Ho messo De Rossi accanto a Gattuso, spostando un pò più in avanti Pirlo". M. Lippi.
"Entro e magari faccio danni". D. De Rossi.
"Loro cercavano di avanzare, avanzare, avanzare. E noi lì, a dare battaglia". F. Cannavaro.
"Eccolallà. Andiamo a casa, ora". D. De Rossi (sul colpo di testa di Zidane, sventato da Buffon).
"Eh no, eh no, eh no! Non si può. Rischia di rovinare una carriera con una testata indecente, Zidane [...] No, non l'ha visto, ma gliel'hanno detto...Rosso per Zidane che se ne va giustamente sotto la doccia, sotto la doccia, sotto la doccia, sotto la doccia!". F.C.
"La violenza era inaudita. E sono insorto". G. Buffon.
"Vai a sapere cosa scatta nella testa d'una persona in questi attimi". M. Lippi.
"Avevo l'incubo dei rigori. Abbiamo preso troppe mazzate". R. Gattuso.
"Lasciami stare". G. Buffon (a Gattuso, prima dei tiri dal dischetto).
"M'ha guardato, con lo sguardo suo, che conosco. Ed ho lasciato stare". F. Totti (sempre su Buffon).
"Come mai Grosso ultimo? Perchè è l'uomo dell'ultimo minuto". M. Lippi.
"Davvero sicuro ?". F. Grosso (a Marcello Lippi).
"Vai tranquillo, Fabio, perchè c'hai portato qua tu". L. Toni (a Grosso, prima del tiro).
"Fabio Grosso... è il quinto rigore...Gol! Gol! E allora diciamolo tutti insieme, tutti insieme! 4 volte: siamo campioni del mondo, CAMPIONI DEL MONDO, CAMPIONI DEL MONDO, CAMPIONI DEL MONDO! Abbracciamoci forte, e vogliamoci tanto bene; vogliamoci tanto bene. Perché abbiamo vinto, abbiamo vinto tutti stasera; abbiamo vinto tutti, amici; abbiamo vinto tutti; abbiamo vinto tutti amici. Guardate dove siete, perché non ve lo dimenticherete mai! Guardate con chi siete, perché non ve lo dimenticherete mai! Pensate all'abbraccio più lungo che una manifestazione sportiva vi abbia mai regalato. Forse uno dei più lunghi della vostra vita! Abbracciatevi forte... Abbracciatevi forte... E abbracciate soprattutto questa meravigliosa squadra... Che ha vinto soffrendo... Che ha vinto come l'Italia non era mai riuscita a vincere. Ai calci di rigore. Contro la Francia, che ci aveva sempre eliminato. Contro i francesi, che ci avevano sempre battuto nelle manifestazioni dal '78 in avanti. E questa volta no. Questa volta abbiamo vinto. E ci prendiamo la Coppa". F.C.

Ci sono molti momenti indimenticabili nella vita d'un uomo. Momenti perfetti, che spesso capitano nel posto perfetto, con le persone perfette, in vite spesso imperfette. Questo fu uno di quelli. Uno di quelli che ti fa capire come, nella sfera perfetta di un pallone da calcio, possa davvero essere rinchiusa quella imperfetta del mondo in cui viviamo.
Ricordiamoci di non dimenticare...E come mai potremmo.

P.S..
"Se vai via ora, t'ammazzo". R. Gattuso (a Marcello Lippi, dopo la vittoria).
"Era normale provare a convincerlo. Ed io c'ho provato, ma non è servito a nulla". R. Gattuso (su Lippi).
Tre giorni dopo, coerente, Marcello rassegnò le sue dimissioni. Rino, Marcello, riprovateci, per favore. Per dimostrare al mondo intero che anche un'emozione unica, prima o poi, può ricapitare. E chissenefrega se era unica.

28 settembre 2013

Storie di calcio: Karel Poborky, il carnefice nerazzurro

5 maggio 2002. Una data che nessun tifoso della Juventus o dell'Inter dimenticherà mai. In un Olimpico stracolmo di nerazzurri, con i tifosi laziali che spingevano i propri giocatori a perdere e regalare lo Scudetto all'Inter di Moratti, in agonia dal 1989. Eppure quella Lazio, allenata da Zaccheroni, aveva alcuni grandi giocatori, professionisti. Penso al Cholo Simeone o ad Angelone Peruzzi, ma non posso non parlare del ceco Karel Poborský.
Amico e compagno di mille battaglie di Pavel Nedved, il centrocampisto ceco è stato un professionista come pochi se ne trovano.
Classificatosi secondo con la Repubblica Ceca ad Euro 96, Poborský venne ingaggiato dal Manchester United, dove giocò per due anni, prima di un quadriennio al Benfica.
Nel gennaio 2001 passa alla Lazio: sarà proprio Poborský insieme a Gresko, in una curiosa combinazione ceco-slovacca, il protagonista del 5 maggio 2002: in uno stadio in cui anche i tifosi laziali tifavano l’Inter capolista, Karel segna una doppietta decisiva nel 4-2 laziale finale, con l’Inter che perde lo scudetto all’ultima giornata. Questa è stata l’ultima partita di Poborský in Italia, con la celebre polemica sotto la curva laziale. Sfidando l'intera tifoseria biancoceleste, infatti, Poborsky scatena la Lazio di Fiore e Simeone a dare il massimo, affossando l'Inter di Ronaldo (in lacrime) e regalando lo Scudetto alla Juventus di Lippi, vincente ad Udine con i goal di Del Piero e Treguet.



Tornato in Repubblica Ceca, gioca un anno nello Sparta Praga, Dynamo České Budějovice, squadra di seconda divisione in cui era cresciuto e di cui era anche diventato proprietario. Dalla metà classifica Poborský porta la squadra addirittura in prima divisione, in una delle più classiche favole che solo il calcio può regalare.
Giocatore dotato di ottima tecnica, temibile sui calci piazzati e sui tiri da lontano (celebre il suo pallonetto con il Portogallo agli Europei 1996), Poborský è stato un centrocampista molto offensivo. Specializzato nelle scorribande sulla fascia, dispensava gol e assist per i suoi compagni partendo da destra, sua zona di competenza preferita.
Il suo anno d'oro è sicuramente il 1996. Anche grazie a Poborský, infatti,  la Repubblica Ceca raggiunge la finale di Euro 1996 eliminando Italia, Portogallo e Francia e venendo sconfitta solo dal golden goal di Oliver Bierhoff nei supplementari della finale.

Storie di calcio: Claudio Caniggia, l'amante segreto del Pibe de Oro

Claudio Paul Caniggia, nato ad Henderson (Argentina) 9 gennaio 1967, è stato un attaccante di livello mondiale. Passato alla storia per il goal all'Italia in semifinale al Mondiale '90 e per la sua grande amicizia con Diego Maradona, Caniggia è stato un giocatore estremamente longevo.
Centravanti velocissimo (sui 100 metri era capace di far registrare un 10.70 a livello giovanile e un 11.20 da adulto) anche se non proprio un killer sotto porta, Claudio Caniggia era soprannominato el hijo del viento (il figlio del vento).
A livello di club è stato un giramondo: cresciuto ed esploso nel River Plate, giocò in Italia per Verona, Atalanta e Roma, riuscendo a collezionare presenze anche nelle coppe europee.
Da giocatore atalantino si classifica al secondo posto nel mondiale italiano; suoi i goal decisivi nell’1-0 contro il Brasile agli ottavi di finale e nell’1-1 contro l’Italia in semifinale. Caniggia non parteciperà però alla finale persa contro la Germania per somma di ammonizioni, non potendo aiutare l'albiceleste ad evitare una bruciante sconfitta.
Dopo altre due stagioni con l’Atalanta ecco il passaggio alla Roma: sul finire della prima stagione in giallorosso, nel 1992-93 Caniggia viene trovato positivo alla cocaina, l’unico insieme a Maradona fino ad allora. Questa circostanza portò el pibe de oro ad accusare Matarrese, presidente della Lega Calcio, di aver architettato questo scandalo per vendicarsi dell’eliminazione dell’Italia dai mondiali casalinghi. L'accusa, ovviamente, è tanto ridicola quanto infondata, tanto che il duo argentino dal goal nel sangue ed il "naso lesto" non terminerà con l'esperienza italiana il rapporto con l'ufficio antidoping.

Il rapporto tra Maradona e Caniggia, come dicevo, andava ben oltre l’amicizia: dopo una stagione persa per squalifica e una al Benfica, Caniggia tornò in Argentina proprio per giocare con Maradona. Dopo un goal i due festeggiarono baciandosi sulle labbra, e sempre a quel periodo risale una dichiarazione della moglie di Caniggia: “Credo che Diego sia innamorato di mio marito; dev’essere per i capelli lunghi e i muscoli!”
Nel 1999 Claudio torna all’Atalanta, dieci anni dopo la prima stagione in nerazzurro, ma le cose non sono più le stesse: l’Atalanta è in Serie B, Caniggia è invecchiato e l’allenatore Vavassori non lo sopporta, anche per il suo taglio di capelli.
Il girovagare di Caniggia continua tra Scozia (Dundee United e Rangers Glasgow) e Qatar per una pensione dorata all’ombra delle palme.



I continui trasferimenti da un club all’altro non permettono di associare Caniggia a una singola squadra, ma nonostante tutto Caniggia rimane nei cuori dei tifosi argentini per quanto ha saputo dare alla Nazionale: goal decisivi, grandi prestazioni ai mondiali e il cuore sul campo. Questo nonostante Caniggia fosse stato lasciato fuori dall’albiceleste per un lungo periodo, sotto la gestione Passarella, che gli voleva imporre di tagliarsi i capelli. Riuscì a tornare in Nazionale con Bielsa; convocato per i Mondiali 2002 in Corea/Giappone, non scese mai in campo ma riuscì comunque a farsi espellere dalla panchina durante la partita con la Svezia.

27 settembre 2013

Storie di calcio: Mauro German Camoranesi, il fenomeno di Tandil

Mauro Germán Camoranesi è stato uno di quei giocatori che, quando toccava la palla, scatenava emozioni. Originario di Tandil, Argentina, è uno degli illustri personaggi della cittadina argentina, che ha dato fra gli altri i natali a tennisti del calibro di Del Potro e Juan Monaco.
Nato come centrocampista esterno di destra, viene portato in Italia dal Verona, dove gioca due stagioni. Insieme a Oddo e Mutu compone un trio di tutto rispetto, facendo sognare grandi traguardi ai gialloblu. Nella stagione 2001-02, infatti, i veronesi erano alla fine del girone di andata in zona coppe europee, salvo poi avere un inspiegabile crollo e retrocedere in Serie B. Nonostante "la cura Malesani", la Juventus decide di investire su Mauro German, portandolo a Torino nell'estate del 2002. Marcello Lippi s'innamora letteralmente di lui, facendolo diventare uno degli alfieri fondamentali del suo scacchiere tattico.
Alterego di Pavel Nedved sulla fascia opposta, Mauro Camoranesi era un centrocampista estroso, dotato di tecnica sopraffina e visione di gioco celestiale. Quando entrava in campo sapeva "accendere la musica", sfornando assist e prestazioni da fenomeno vero.
Con la maglia della Juventus ha vinto pressochè tutto, guadagnandosi anche la possibilità di giocare in Nazionale. Non l'Argentina, che lo ha sempre snobbato, ma l'Italia di Trapattoni prima e Lippi poi. Le sue chiare origini italiane, infatti, consentirono a Mauro German di aiutare la Nazionale del 2006 a vincere il Mondiale in Germania. Celebre la sua esultanza a fine partita, con l'amico Massimo Oddo, suo compagno ai tempi del Verona, che s'improvvisa "coiffeure" e regala a Mauro German un nuovo look per alzare la coppa più bella ed importante.



Trasformato da Capello in centrocampista universale, Camoranesi è stato in grado di giocare in tutti i ruoli: centrocampista centrale, mezzala o trequartista dietro le punte.
La sua principale caratteristica, come detto, era una visione di gioco senza pari. Abile nel dribbling e nei passaggi filtranti, Camoranesi giocava sempre a testa alta. Accarezzava la palla come pochi centrocampisti sanno fare, era altruista e cattivo allo stesso tempo; cinico e deliziosamente bello da veder giocare.
Dopo il Mondiale 2006, nonostante lo scandalo di Calciopoli, decide di restare alla Juventus. Insieme a Buffon, Del Piero, Trezeguet e Nedved è il vero trascinatore della rinascita bianconera, risultando fondamentale anche nelle due stagioni con Ranieri nel pronto ritorno in A della Signora. Il suo carisma, unito alla sua classe sopraffina, hanno spinto i bianconeri alla conquista di una mole impressionante di successi.



Di lui, da tifoso bianconero, posso dire soltanto che era un giocatore fantastico. La Juventus ha sempre avuto forti centrocampisti esterni, ma Mauro German ha avuto qualcosa di diverso. Non so se fosse per il suo sguardo simpatico o la sua naturale tranquillità in campo, ma Camoranesi era quel giocatore che non ti fa mai preoccupare. Gli unici "salti sulla poltrona" te li faceva fare quando tirava fuori dal cilindro un dribbling ubriacante o un assist al bacio; per il resto ti faceva sentire tranquillo. Quando la palla era nei suoi piedi si era sicuri che la poesia del calcio stava per scatenarsi in tutta la sua forza.

Storie di calcio: El Payaso, Pablo Aimar

Pablo César Aimar Giordano (Buenos Aires, Argentina, 3 novembre 1979) è stato uno di quei giocatori pompatissimi in gioventù, arrivati in Europa come un "messia" e che poi non è riuscito a soddisfare le aspettative. Soprannominato in patria El Payaso, per via delle sue notevoli abilità nel fare giochi di prestigio con il pallone, Aimar ha stregato tutti gli argentini. In primis un certo Diego Armando Maradona, che quando il talentino albiceleste iniziava ad incantare in patria disse: "Aimar è l’unico giocatore per cui pagherei per vederlo giocare".
Classico enganche di scuola argentina, dotato di grande tecnica, maestro nella rabona, colpo con il quale segna e crossa, Pablo Aimar è stato uno dei tanti “eredi di Maradona” della seconda metà degli anni ’90. Insieme a Andrés D’Alessandro e Javier Saviola ha "illuso" l'intero mondo del calcio, risultando infatti un ottimo giocatore ma non il campione che in gioventù sembrava dover diventare.



Cresciuto nel vivaio del River Plate (nel quale entrò scelto da Passarella), esordisce 16enne in prima squadra, nel 1995. Nel 2000 vince il campionato mondiale under-20, in una squadra che comprendere il suo amico Riquelme, D’Alessandro, Saviola (11 goal) e Coloccini.
Nel 2001 arriva il sospirato traferimento in Europa: il Valencia se lo aggiudica per 24 milioni di euro, il trasferimento più costoso nella storia del club levantino. Si adatta subito agli schemi di Héctor Cúper, ed è in campo nella finale di Champions 2001, persa contro il Bayern Monaco.
Resta titolare anche con il nuovo allenatore Rafa Benìtez e contribuisce ai successi del Valencia nella prima metà degli anni 2000, partecipando anche alla sfortunata spedizione argentina ai mondiali di Corea e Giappone 2002.
Purtroppo la carriera di Aimar è stata tormentata da molti infortuni, dalla pubalgia e perfino da un attacco di meningite.
Nel 2006 lascia Valencia per il Saragozza (12 milioni di euro), dove gioca poco, sempre a causa degli infortuni. In squadra con lui c’è anche Diego Milito. Nel 2008 le loro strade si dividono, con esiti totalmente differenti: el Principe torna in Italia al Genoa, Aimar va al Benfica ingaggiato da Rui Costa per 6 milioni di euro.
A Lisbona Aimar comincia a vedere di nuovo il campo, a fare assist di rabona da 40 metri e viene convocato persino in nazionale da Maradona, finendo comunque escluso dalla lista dei partenti per Sud Africa 2010. Dopo l'ultima delusione nazionale, Aimar continua ad alternare buone giocate con la maglia del Benfica, salutando il vecchio continente nel 2013 dopo una bruciante sconfitta in Europa League, contro il Chelsea di Rafa Benitez.

26 settembre 2013

Storie di calcio: un uomo fortunato, Christian Karembeu

Cosa rendeva Karembeu un giocatore superiore agli altri? Molto semplice, sua moglie! Scherzi a parte, il mediano colored è stato un calciatore di indubbio talento, tanto da militare nel Real Madrid e nella nazionale francese, insomma non due squadrette qualsiasi.
Nato a Lifou, Nuova Caledonia, il 3 dicembre 1970, è uno di quei giocatori "coloniale" che ha fatto le fortune della Francia di fine anni '90. Insieme ai connazionali Thuram, Vieira, Zidane e Djorkaeef, Karembeu è stato protagonista dell'ascesa francese sulla scena del calcio mondiale. Vincitore nel Mondiale di casa e ad Euro 2000, Karemberu era un mediano difensivo, schierabile all’occorrenza anche come difensore centrale.

Christian Karembeu nasce e trascorre l’infanzia e la giovinezza sull’isola di Lifou, nella Nuova Caledonia (Oceano Pacifico) crescendo secondo i costumi dell’etnia kanak. Il nonno, guerriero kanak, era stato esposto allo zoo umano del Jardin d’acclimatation di Parigi, durante l’esposizione universale del 1931. Fatto questo che non impedirà a Christian di scegliere i colori della Francia nella partite internazionali, senza però cantare la Marsigliese (considerata dal ragazzo un inno guerriero, che non ha niente a che fare con il gioco).
L’arrivo nella Francia metropolitana del giovane Christian si ricorda nel lontano 1988, quando viene inserito nelle giovanili del Nantes, squadra con cui esordirà nella serie A francese nel 1990, e con cui giocherà per cinque campionati, vincendone uno nel 1995.
Dopo la conquista del campionato francese, Karembeu si trasferisce in Italia, più precisamente alla Sampdoria, dove gioca una buona prima stagione cui fa seguito un’annata più deludente, anche a causa dell'impoverimento tecnico della squadra.
Nel 1997 Christian viene ingaggiato dal Real Madrid, non tenendo in considerazione le ultime difficili prove a Genova. Indossando la maglia della Casa Blanca vince la Champions League 1998, giocando titolare in tutta la fase finale della competizione con 2 goal segnati nei quarti di finale contro il Bayer Leverkusen. Il 1998 è un anno magico: dopo la Champions arriva anche il trionfo ai Mondiali di Francia ’98. Anche in questo caso, dopo un inizio come panchinaro, Karembeu viene schierato titolare nella fase finale del torneo a partire dai quarti di finale contro l’Italia (la partita del rigore di Di Biagio sulla traversa), passando per la semifinale contro la Croazia e la finale trionfale di Saint-Denis contro il Brasile. Una vittoria anche contro chi, come il leader fascista Jean-Marie Le Pen, considerava quella nazionale “troppo nera“.
Nel dicembre 1998 Karembeu diventa campione del mondo anche per club, pur senza giocare, quando il Real Madrid vince la Coppa Interncontinenta contro il Vasco Da Gama.
Il periodo madrileno del kanak finisce nel 2000 dopo la conquista di una seconda Champions League con le merengues e dell’Euro 2000 con la nazionale francese contro l’Italia.
Dopo Madrid, per Karembeu arriveranno il Middlesbrough, l’Olympiakos, il Servette e il Bastia, prima del ritiro nel 2006.
Si diceva della sua miglior qualità all'inizio del pezzo. La sua storia d’amore con la modella Adriana Skleranikova è stata argomento di gossip francese e internazionale, storia d’amore finita a marzo del 2011. Ad oggi Karembeu si impegna anche con numerose fondazioni di beneficenza legate al calcio, oltre a essere ambasciatore e promotore del calcio del continente oceanico a livello mondiale.

Storie di calcio: Marco Ferrante

La Torino granata, a cavallo fra gli anni '90 e gli anni '00, ha avuto un solo grande idolo: Marco Ferrante. Una scelta giustificata, perchè il bomber romano era davvero un attaccante di razza, uno di quelli che faceva la differenza.
E' lo stesso Ferrante a raccontare la sua carriera, che a Torino ha vissuto i suoi momenti più alti, ad iniziare da quel campionato 1999-2000, in cui Marcolino Ferrante realizzò ben 18 reti in Serie A.



"Sono cresciuto ai piedi del Vesuvio e mi ritengo di essere stato un calciatore fortunato ma allo stesso tempo sfortunato di essere stato svezzato nel momento in cui a Napoli c’erano tanti campioni. La fortuna di allenarmi con Maradona, Alemao, Carnevale, Careca, Fonseca e Giordano era tanta, ma ero un po’ presuntuoso e credevo di essere bravo quanto loro. La panchina mi stava stretta e questo non mi permise di fare bene dopo. Poi molti mi dipingevano come ragazzo prodigio e mi montai la testa. Col senno del poi fu quello un grave errore. Poi a Torino ho trovato la mia dimensione ed ho fatto bene legandomi molto alla tifoseria granata.
Un altro passo sbagliato fu andare all’Inter a gennaio del 2001. La squadra nerazzurra non navigava in acque tranquille visto che Lippi non era riuscito a mantenere le premesse iniziali e successivamente fu allontanato. Con me in panchina c’era già Tardelli. Fu un anno terribile credo come quello appena concluso in termini di risultati perché quando un club come l’Inter non va in Europa è un fallimento. Perdemmo un derby 6-0, giocammo a Bari per la squalifica di San Siro e in coppa non andò meglio con l’Alaves. Mettete pure il motorino gettato in curva dai tifosi per capire che clima si respirava in quel periodo. Ognuno ha ciò che si merita e quindi non ho rimpianti. O forse sì.

A Catania mi trovai in un club fantastico con un presidente come Pulvirenti che ti trasmetteva una carica unica perché ci stava vicino mostrando un attaccamento che non ho mai visto altrove. Peccato però che in quella stagione la squadra non era attrezzata per la B e la dirigenza voleva subito i risultati essendo appena arrivata a Catania. Questa pressione portò tanti problemi ma posso dire che nonostante poi sia andato via insieme ad altri miei ex compagni di squadra, Pulvirenti mi lasciò un ottimo ricordo. In sei mesi mi ha trasmesso più cose positive lui che tanti altri presidenti di club dove sono rimasto per più tempo".

Il rimpianto di essere andato all'Inter, una frase che difficilmente si sente dire. Eppure Marco Ferrante lo dice senza remore e senza censure, a testimoniare una cosa sola: viveva per giocare e per segnare. All'Inter non ebbe l'occasione, ed è un peccato. Non so dire se sia stato un suo problema o un problema del club; così come non saprei dire se Ferrante, come Hubner o Di Natale, fosse un bomber da "provinciale". Voglio piuttosto concentrarmi sui numeri, che ci dicono che Marco ha sempre segnato. Lo ha fatto con regolarità e senza paura, alle grandi come alle piccole squadre; in A come in B o in Lega Pro, dove ha chiuso la carriera con la maglia del Verona.



Quinto in solitaria fra i cannonieri della storia del Torino, ha superato persino un mostro sacro come Il Capitano del Toro, quel Valentino Mazzola indietro di due reti rispetto al numero 9. Non mi permetterei mai di dire che Ferrante sia stato meglio di Mazzola, ma una cosa la so: Ferrante aveva il goal nel sangue.
Destro naturale, non era un calciatore dal fisico poderoso. Eppure, veloce e tecnico, sapeva fare la prima come la seconda punta. In carriera ha giocato con Lentini, Pinga e Lucarelli, giocatori diversi fra loro ma con un comune denominatore: accanto a loro Ferrante ha sempre segnato.

25 settembre 2013

Storie di calcio: Dino Baggio

Oggi sono in vena di ricordare gli eroi di Usa'94. Dopo Beppe Signori, infatti, voglio ricordare Dino Baggio. Lui, insieme all'omonimo Roberto, hanno trascinato gli azzurri di Sacchi alla finale con il Brasile. La storia di Dino, eroe nella partita con la Norvegia, è tratto da tuttojuve.com, che ricorda per filo e per segno la storia del grande Dino, centrocampista di straordinario carisma ed intelligenza fuori dal comune.


Dino Baggio nasce a Camposampiero, in provincia di Padova, il 24 luglio 1971. Cresce calcisticamente nel Torino, con cui esordisce in serie A in Torino-Lazio 0-0 del 9 settembre 1990. Nel 1991 viene ceduto alla Juventus, che lo presta all’Inter per una stagione.

«Mi chiama Borsano, il presidente del Torino, e mi chiede se voglio andare alla Juve. Al volo dico io, che da piccolo tenevo anche per i bianconeri. Visite mediche, accordo fatto e presentazione con tanto di foto. Poi, mi telefona Boniperti, ero in vacanza. Mi dice di andare subito in sede. Vado e mi lascia a bocca aperta: per quest’anno vai all’Inter, poi torni da noi. Ma come, mi avete fatto fare anche le foto con la maglia della Juve e dopo due giorni vado via? Poi, capii. Doveva tornare Trapattoni alla Juve. La verità è che sono stato il primo giocatore ad essere scambiato con un allenatore!»

Tornato in maglia bianconera vi resta due anni; la prima stagione in bianconero è indimenticabile, in quanto è il grande protagonista della vittoriosa cavalcata in Coppa Uefa. I suoi goals, sono decisivi, addirittura tre nella doppia finale contro il Borussia Dortmund; la seconda stagione è meno felice, sballottato in più ruoli non riesce a rendere come potrebbe.

«Sono partito attaccante, poi li ho girati un po’ tutti. Trapattoni voleva impostarmi come terzino sinistro ed a me non dispiaceva. Ma quando Sacchi ha iniziato a chiamarmi in Nazionale ed a mettermi a centrocampo, ho chiesto al Trap di fare altrettanto. Ma non è stato facile convincerlo».

Nell’estate del 1994 si trasferisce al Parma e, con la maglia gialloblu, il 9 gennaio 2000 si rende protagonista di un episodio increscioso: secondo tempo di Parma-Juventus, Baggio si rende colpevole di un duro intervento su Zambrotta che l’arbitro sanziona con il cartellino rosso. Arrabbiatissimo, se la prende con tutti i giocatori juventini e, prima di uscire dal campo, mima all’arbitro Farina il gesto dei soldi, strofinando il pollice e l’indice della mano destra; gli costerà una squalifica per sei giornate ed una multa di 200 milioni di Lire.

«È da quel momento che sono cominciati i miei guai e sono rimasto fuori dal giro della Nazionale. Mi sono beccato un rosso molto discutibile per un intervento su Zambrotta. L’arbitro era Farina. Mi ha cacciato ed io ho protestato vivacemente, facendo il segno dei soldi, strofinando indice e pollice. Per quel gesto sono finito fuori dal giro della Nazionale. Ricordo sempre che mi arrivò una telefonata dalla Federazione con la quale mi dicevano che avrei saltato due partite e che dopo mi avrebbero richiamato. Non era mai successo prima. Chiesi spiegazioni e mi fu detto che la mia punizione doveva servire da esempio. Ho anche perso la Nazionale. Avevo ventinove anni e fino alla squalifica ero uno dei titolari. A giugno del 2000 poi c’erano gli Europei ai quali avrei dovuto partecipare. Dopo le sei giornate di stop, sono tornato a giocare. Ed ero in campo anche nello spareggio con l’Inter per la Champions a maggio. Ero in forma, stavo benissimo. Aspettavo una chiamata dalla Nazionale. Mi telefonò Dino Zoff. Mi disse che mi non aveva visto bene fisicamente. Afferrai al volo. Dissi al Mister che capivo che non era colpa sua. Tra l’altro con Zoff ho sempre avuto un ottimo rapporto ed alla Lazio è stato l’unico allenatore che mi ha fatto giocare. Era già tutto deciso ed era un’ulteriore punizione per quello che era successo a gennaio. Non mi sono mai pentito. Anche se il lunedì seguente, il Parma mi mandò a forza al “Processo” di Biscardi per recitare la parte del figliol prodigo che si pente per quello che ha fatto. Ma di vero non c’era nulla. Quel gesto lo avrei fatto mille volte».

2000 viene acquistato dalla Lazio. Nel 2003 vive, in prestito, la sua prima esperienza all’estero, nei Blackburn Rovers, ma a gennaio è di nuovo in Italia, all’Ancona. Nell’estate del 2004 è messo ai margini dalla Lazio, tanto che insieme al compagno Paolo Negro avvia una causa per mobbing contro la società. Nel 2005 si trasferisce alla Triestina, per ripartire con una nuova esperienza dalla serie B.

In serie A ha disputato 330 partite con 24 goal. In Europa 73 partite e 13 goal.

Debutta con la Nazionale maggiore a Foggia il 21 dicembre 1991, nella partita vittoriosa contro Cipro. In totale, 60 partite e 7 goal in azzurro, con partecipazioni ai Mondiali del 1994 (dove contribuisce in modo importante, insieme a Roberto Baggio, al raggiungimento della sfortunata finale contro il Brasile) e del 1998 ed all’Europeo inglese del 1996.

Gioca, inoltre, 18 partite con l’Under 21, conquistando il titolo europeo nel 1992 e 5 con la Nazionale Olimpica.

Storie di calcio: Giuseppe Signori

Ricordo bene un ragazzo biondo, mancino, con il goal nel sangue. Aveva una particolarità che spiccava su tutte, calciava rigori e punizioni senza bisogno di prendere alcuna rincorsa. Era capace di imprimere una forza e una traiettoria perfette al pallone, senza alcuno slancio in velocità. Il suo nome, ovviamente, è Giuseppe Signori, attaccante meraviglioso e calciatore di intelligenza tattica superiore.
Cresciuto calcisticamente nelle giovanili dell'Inter, Signori non ha occasioni di debuttare con i nerazzurri meneghini, che preferiscono puntare su altri cannonieri a metà anni '80. Capita così che Beppe, lombardo dal sinistro fatato, sale alla ribalta delle scene italiane con la maglia rossonera. Non parlo del Milan, ma del Foggia di Zeman. Una squadra meravigliosa, una delle più belle degli ultimi 30 anni di calcio. 
Signori è il terminale offensivo di una squadra che sbalordisce l'intero paese con le sue giocate rapide e veloci. Il credo ultraoffensivo di Zeman è basato su un tridente meraviglioso, composto da Signori appunto e dalla coppia Baiano-Rambaudi. I tre fanno impazzire le difese dello Stivale, portando in alto il Foggia e dando a Signori, Zeman e Rambaudi il pass per il grande calcio. 
La Lazio, infatti, porta tutti e tre a Roma, e la scelta si rivela azzeccata. Signori diventa ben presto l'idolo indiscusso della curva biancoceleste e bomber principe del campionato italiano. In tre anni consecutivi mette a segno qualcosa come 73 reti in Serie A, conquistando per tre volte consecutive il titolo di capocannoniere. 



Nonostante la facilità con cui va in rete, Sacchi gli preferisce Baggio, Vialli e Casiraghi nella sua Nazionale. A Usa '94, quindi, Signori si trova costretto a giocare esterno di sinistra, agendo lontanissimo dalla porta. In semifinale con la Bulgaria il grande rifiuto. Sacchi lo chiama, gli parla e gli propone di giocare da esterno. Signori, bomber di razza, rifiuta. Beppe si gioca così non solo la semifinale, ma anche la finalissima con il Brasile di Romario e Bebeto, laddove il suo apporto sarebbe stato di grande aiuto.
Con un Baggio a mezzo servizio ed un caldo asfissiante, Signori sarebbe potuto essere il giusto grimaldello per scardinare la difesa verdeoro, ma al suo posto giocò Daniele Massaro. Il milanista, oltre ad una prova incolore, sbagliò anche uno dei rigori che condannarono l'Italia a guardare Dunga e compagni alzare al cielo la Coppa del Mondo. 
Proprio i rigori erano l'arma in più di Signori, capace di realizzarli praticamente tutti. I tiri da fermo, punizioni comprese, erano una specialità della casa. Piede destro appiccicato il pallone e sinistro leggermente indietro, pronto a sferrare una saetta verso la porta.

Attaccante completo e dalla tecnica sopraffina, Signori non si può descrivere solo come uno specialista dei calci piazzati. In grado di fare reparto da solo, aveva dribbling e senso del goal. Lo sanno bene a Foggia e a Roma, ma anche a Bologna, dove Beppe Signori chiude di fatto la carriera. A fine anni '90 eredita la numero 10 di Roberto Baggio, il suo alterego nazionale e la sua "maledizione". Signori, da par suo, risponde trascinando i rossoblu per anni, andando costantemente in doppia cifra. 

Idolo della mia infanzia, Signori è stato di recente risucchiato nello scandalo Scommessopoli. Per me, che di Signori avevo il poster in camera, è stato un vero colpo al cuore. Sapere che un centravanti del suo talento e del suo carisma, in grado di distruggere con una giocata o una cannonata da fuori qualsivoglia difesa, è finito in uno scandalo di tale portata mi ha fatto male. Preferisco pensare a Beppe come il numero 10 laziale o bolognese, capace di risolvere le partite da solo e correre con il braccio alzato sotto la curva, a prendere il boato della sua gente. Capitano di mille battaglie, Signori era un vero faro in mezzo alla nebbia, era lo scoglio a cui ci si poteva aggrappare. La fascia, rigorosamente sul suo braccio sinistro, rimarrà sempre nel cuore di chi lo ha visto giocare.  

24 settembre 2013

Storie di calcio: Alen Boksic

Alen Bokšić, croato di Makarska, classe 1970, è stato uno dei centravanti più belli ed eleganti. In possesso di un fisico da corazziere, aveva un cambio di passo che faceva paura. Approdato nel calcio che conta poco più che ventenne. L'occasione della vita proviene dalla Francia, più precisamente dall’Olimpique Marsiglia, dove vince una Champions League, strappandola al Milan di Capello: «In quella stagione, segnai 22 goal in 37 partite, ma giocavo in una posizione centrale ed avanzata e non era un problema andare in rete. Ma che soddisfazione vincere la Champions, contro quella che era considerata la squadra più forte del mondo!»

Il calcio italiano lo accoglie nel 1993, a braccia spalancate, facendo di Alen un protagonista nella Lazio che insegue, invano, lo scudetto. Alen ha una forza fisica dirompente ed una progressione da mezzofondista di classe, si presenta come una specie di Boniek, sicuramente più tecnico.
Insomma ha tutte le caratteristiche per diventare un bomber di razza ed, invece, non sfrutta mai a dovere queste sue qualità, mancando di cattiveria ad un passo dal goal.
Nonostante ciò, approda alla Juventus, nell’estate del 1996: «Nella Juventus mi ha colpito tutto, senza esagerazioni. L’accoglienza è stata molto calorosa, i dirigenti ed i compagni mi hanno subito messo a mio agio; i metodi di allenamento e di gioco sono molto congeniali alle mie caratteristiche. Per non parlare, poi, dei prestigiosi traguardi che vedo, finalmente, a portata di mano e che, con una squadra così competitiva, sarà possibile raggiungere. Mi piace molto la tranquillità di Torino, una città che vive con la giusta misura degli eventi calcistici, a differenza di Roma, dove invece le tensioni erano all’ordine del giorno. Finalmente posso passeggiare in tutta tranquillità, firmando al massimo qualche autografo e godendomi un pochino di anonimato».
L’avvio è incoraggiante, dei tanti bomber di cui la Juventus quell’anno dispone (Vieri, Amoruso, Padovano, Del Piero) Alen è il primo a convincere ed a catturare l’attenzione dei tifosi. All’esordio in Champions League, l’11 settembre 1996, annienta il Manchester United con azione da manuale del perfetto sfondatore e si ripete ad Istanbul contro il Fenerbahçe e contro il Rapid Vienna, addirittura con doppietta, nel 5-0 del 30 ottobre.
In campionato, invece, la solita solfa: un goal al Cagliari alla seconda, un altro all’Udinese alla decima. Poi, qualche malanno muscolare e la pesante concorrenza interna non gli permettono di giocare con continuità. Fino a sabato 19 aprile, un Bologna - Juventus decisivo per lo scudetto. Bokšić segna un goal strepitoso al termine di uno slalom alla Sivori, alla Platini, insomma da grandissimo campione, quale avrebbe potuto essere.



La stagione successiva ritorna alla Lazio, dopo aver vestito la maglia bianconera per 33 partite, con solamente 7 realizzazioni. A Roma regala ancora qualche emozione, prima di chiudere la carriera in Inghilterra con la maglia del Middlesbrough.
Pilastro della Nazionale croata, arriva terzo al Mondiale francese, sfiorando insieme a Suker e Prosinecki una storica finale, negata da una doppietta di Lilian Thuram in quel di Parigi. Oggi, ritiratosi dalla scena calcistica, ha comprato un'isola (quella di Mariaska) dove tutt'ora risiede, salvo quando gioca la Croazia di cui è diventato Team Manager nel luglio 2012.

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