“Diaz si deve vergognare per le sue insinuazioni sulla vittoria della Juventus della Coppa Intercontinentale contro il River Plate del 1996. Abbiamo vinto quel trofeo e la Coppa dei Campioni qualche mese prima perché eravamo più forti e meglio allenati. Se avessimo fatto uso di sostanze illegali non avremmo vinto solamente ai rigori contro l'Ajax e con un gol di Del Piero su un mio calcio d'angolo nel finale contro gli argentini. Li avremmo potuti asfaltare nel gioco e nel risultato, al contrario entrambe le finali sono state gare molto equilibrate e molto dure fino all'ultimo minuto. Evidentemente a Diaz quella sconfitta brucia ancora e dopo quasi 17 anni cerca alibi. Peraltro, come per ogni squadra dopo ogni partita, vi erano controlli antidoping a sorteggio e non mi pare siano emersi problemi. La delusione provocata dalle parole di Diaz deriva dal fatto che lui è un professionista, ex grande attaccante e attuale ottimo allenatore, non un tifoso dal quale mi potrei anche aspettare certe dichiarazioni”.
Schietto, diretto, senza peli sulla lingua. Angelo Di Livio era così anche in campo, un giocatore generoso, che non toglieva mai la gamba e che non mollava mai. Ad uno così non puoi dire nulla, perchè giustamente i successi se li sente sulla pelle, li rivendica per l’impegno e la fatica che ha messo sul rettangolo verde. Lo sfogo, dai microfoni di Radio Manà Sport, racchiude un po’ l’essenza della Juventus di Lippi, una squadra fatta di guerrieri ancor prima che di campioni.
La finale del Novembre ’96, giocata a Tokyo, è una di quelle partite che difficilmente si dimenticano. Non tanto perchè assegnò il platonico titolo di “campione del mondo”, ma per l’atmosfera che la contraddistinse. La sfida fra Juventus e River Plate ha rappresentato per me la scoperta di un calcio nuovo, quello sudamericano. Fino ad allora conoscevo le gesta dei campioni argentini e brasiliani, apprezzavo le loro nazionali, ma non avevo mai approcciato la cultura calcistica di un continente fanatico per il pallone, di cui presto non avrei potuto fare a meno.
La nuova coppa non ebbe un battesimo ufficiale. La si chiamò in due modi: Coppa Intercontinentale e anche Coppa Europa-Sudamerica. La prima edizione venne dunque subito disputata nel 1960 e quasi inevitabilmente bagnata dal successo dell'invincibile Real di Di Stefano e Puskas. Di lì in avanti l’Intercontinentale divenne l’occasione per misurare la bravura di due continenti, di due filosofie di calcio: il pragmatismo europeo contro l’estro sudamericano. Inutile negare il fascino di un trofeo snobbato solo da chi lo perde.
Juventus e River Plate non sono due squadre qualsiasi, rappresentano l’elitè dei propri continenti. Entrambe hanno già giocato e vinto l’Intercontinentale, lo scopo è quell di confermarsi e tornare a casa con un trofeo importante, tanto nell’essenza quanto nel suo simbolismo. I bianconeri di Lippi arrivano in Giappone con la consapevolezza dei grandi. Dopo uno Scudetto ed una Champions League il tecnico viareggino ha radicalmente cambiato la sua squadra. Fuori Vierchowod Baggio, Vialli e Ravanelli; dentro Paolo Montero, Zinedine Zidane ed Alen Bokšić. Inutile negarlo, un ricambio generazionale formidabile, tanto da portare i media di tutto il mondo a considerare la Juventus come largamente favorita.
Il River Plate di Ramòn Dìaz arriva all’appuntamento senza quel clamore mediatico che una squadra come il River meriterebbe. La vittoria nella Copa Libertadores, contro gli ostici colombiani dell’Amèrica de Calì, è stato il coronamento degli sforzi di un’intera società, abile a catalizzare i migliori giocatori argentini e sudamericani.
Eroe dell’impresa, in quel del Monumental, un certo Hernàn Crespo. Soprannominato “Valdanito” per la sua somiglianza con l’ex centravanti del Real Madrid, Crespo è stato ceduto in Italia al Parma di Tanzi e Ancelotti. Insieme a Crespo ha lasciato il River un’altra colonna della squadra, Matìas Almeyda, anch’egli approdato nel Bel Paese per giocare con la maglia della Lazio.
Guai a pensare che i Millonarios siano una squadra allo sbando, Ramòn dìaz ha infatti al proprio arco alcune frecce pericolosissime. In porta l’affidabilissimo Roberto Bonano, uno che non a caso andrà a giocare al Barcellona. In difesa la solidità del paraguagio Celso Ayala e la rapidità di Juan pablo Sorìn, terzino sinistro che calcherà scenari importanti e con alle spalle una sfortunata stagione proprio nella Juventus, con cui si è fregiato del titolo di campione d’Europa nonostante le misere due presenza. A centrocampo la concretezza di Sergio Berti e Leonardo Estrada, al servizio della fantasia di uno dei talenti più interessanti dell’intero panorama calcistico mondiale: Ariel Ortega. Soprannominato “El Burrito”, Ortega è il classico numero 10 argentino, dotato di classe invidiabile, visione di gioco e senso del goal. In avanti, orfano di Crespo, Dìaz può comunque contare sull’esperienza dell’ex granata Francescoli e di un giovane Julio Ricardo Cruz, uno che negli anni avvenire si scatenerà contro la Vecchia Signora. Prima riserva un certo Marcelo Salas. Insomma, una squadra di tutto rispetto.
Per esperienza e attitudine ai grandi palcoscenici gli uomini di Lippi sembrano poter aver la meglio contro un River giovane, sfrontato, che fa dell’attacco il suo unico credo calcistico. La realtà parla però di una partita inaspettata, comandata dai bianconeri e giocata in rimessa dagli argentini. Un River Plate capace di difendersi con un ordine e un’organizzazione mai visti prima, ed un Bonano superstar per quasi tutto il match. E’ proprio l’estremo difensore, infatti, a salvare prima su Zidane e poi sul solito Bokšić, devastante in fase di costruzione e sorprendentemente timido quando si tratta di graffiare.
Nel secondo tempo si riprende con lo stesso trend. La Juve è superiore, attacca il fortino degli argentini che tremano, barcollano, ma non cadono. Jugovic recupera un bel pallone a centrocampo e con un passaggio rasoterra pesca Del Piero, appostato al vertice sinistro dell’area di rigore. Quella è la mattonella di Alex, che punta Diaz, tiro a giro. La conclusione è sporcata dai difensori e ricade alle spalle di Ayala, al limite dell’area piccola. Sbuca Bokšić, che incoccia nuovamente su una miracolosa uscita bassa di Bonano. Passano pochi minuti e su una punizione dalla trequarti destra battuta Di Livio, svetta sul primo palo Del Piero che indirizza benissimo verso la porta, trovando Bonano ancora in traiettoria.
Dopo più di un’ora a cento all’ora la Juventus si prende un momento per rifiatare e per poco non le risulta fatale. Azione prolungata di Monserrat, scarico indietro per Diaz che dal vertice destro dell’area di rigore crossa teso e corto. Torre di testa dell’avanzato Berizzo per l’inserimento di Ortega, il fantasista brucia Peruzzi con un delizioso tocco sotto da posizione defilata ma la traversa salva i bianconeri. La goccia di sudore freddo, corsa lungo tutta la schiena degli undici bianconeri, spinge gli uomini di Lippi ad attacare. A meno di 10’ dalla fine Di Livio batte un calcio d’angolo. La parabola del numero 7 è arcuata, ma a mezza altezza. Difficile girarla di testa verso la porta, quasi impossibile domarla. Zidane la prolunga sul secondo palo, dove è appostato Alessandro Del Piero. Il numero 10 controlla il pallone in un fazzoletto e con lo stesso destro calcia forte verso il secondo palo. La traiettoria della conclusione è perfetta, la forza del pallone è tale che Bonano può solo osservare la sfera insaccarsi sotto l’incrocio dei pali.
Il finale è pirotecnico, Diaz toglie Cruz e getta nella mischia Marcelo Salas, ma è l’altro neo-entrato Gancedo a scaldare i guantoni di Peruzzi con un improvviso destro dal limite. Il River è riversato completamente nella metà campo della Juventus e Peruzzi deve ancora rispondere “presente” sul colpo di testa di Ayala, vanificando l’ultimo vero attacco degli argentini. Gli sforzi dei Millionarios lasciano infatti invitanti varchi per il contropiede, che non tarda ad arrivare. Del Piero pesca con un delizioso lancio Alen Bokšić, che in velocità semina senza problemi Berizzo, colpisce il palo esterno a portiere battuto.
Pochi minuti dopo il fischietto brasiliano Rezende decreta la fine del match. E’ un trionfo per la Juventus, targato Alessandro Del Piero. Non è semplice raccontare a parole cos’abbia rappresentato Del Piero, un campione assoluto, per distacco il calciatore che più di tutti ho amato ed incitato; stimato e sostenuto, nei momenti più felici e quelli meno gioiosi. Il numero 10 veneto, quello che per me sarà per sempre “il capitano”, è entrato nella storia bianconera da vincente e ne è uscito da Campione d’Italia, regalando anche nella sua ultima partita una rete nello stadio che lo ha visto realizzare il suo primo goal, nel lontano ’92. Diciannove anni di amore, di storia, in cui Del Piero ha scritto pagine di storia su cui la parola “fine” non sarà mai messa nera su bianco, perchè il nome di Alessandro rimarrà per sempre scolpito come una roccia.
Un giocatore ed un uomo straordinario, capace di portare sulle spalle il numero più pesante che la storia del calcio abbia in dote. Quando indossi la 10 non sei un giocatore qualunque, sei il faro della tua squadra, il giocatore che più di tutti ha la responsabilità di essere decisivo. E Del Piero è stato un campione estremamente caparbio, risoluto, freddo. Fra tutte le maglie, in Italia, quella più pesante è sicuramente quella della Juventus. Quando indossi la maglia bianconera sei un uomo fortunato, giochi in una grande squadra, ma sei costretto a vincere. Nel mondo poche squadre si identificano in un campionato come la Juventus. Real Madrid e Bayern Monaco sono le uniche compagini paragonabili alla Vecchia Signora, non perchè non esistano altre squadre formidabili, ma perchè queste tre hanno una caratteristica propria, esclusiva. Si identificano con il campionato nazionale. Il Italia il Milan ha una dimensione internazionale, l’Inter è storicamente una squadra ciclica, che va a corrente alternata; in Spagna il Barcellona, per ideologia e storia, non si è mai fuso con la Liga. In Germania, infine, solo il Bayern Monaco è sopravvissuto alla tradizione, resistento agli attacchi dell’Amburgo, del Borussia Dortmund e del Werder Brema.
Vestire la maglia numero 10 di una di queste squadre, e farlo per quasi vent’anni, è un’impresa che può riuscire solo ad un campione. Capace di esplodere raccogliendo il numero e l’eredità di un certo Roberto Baggio, forse l’italiano con maggior classe ed eleganza che gli dèi del calcio ci abbiano dato. Superlativo nel mettersi al servizio dei compagni e vicnere tutto quello che c’era da vincere, ivi compresa quella Coppa Intercontinentale di cui qui abbiamo raccontato. Facendo tutto questo con straordinaria semplicità, incantando il mondo con il goal “alla Del Piero”. Un destro a giro dal limite dell’area, con la palla che inesorabilmente s’infila nel “sette”, alle spalle del portiere. Una leggenda nata nel Bel Paese e divenuta realtà la sera del 13 Settembre 1995, al Westfalenstadion di Dortmund, quando Del Piero riceve palla, mette a sedere il nazionale tedesco Kohler e fa partire un’infida parabola che gonfia la rete della porta di Stefan Klos, proteso all’inverosimile per cercare di bloccare la traiettoria del pallone. Ma è impossibile evitare quelle reti, e lo capiranno ben presto quasi tutti gli estremi difensori, da Goram a Casillas, passando per Pagliuca, Julio Cesar e Jens Lehmann, trafitto nei secondi finali della semifinale Mondiale del 2006.
“Me lo consigliò Ronaldo, lo voleva al suo fianco: inutile comprare tanti giocatori, basta prendere Del Piero e saremo fortissimi. Però non fu possibile imbastire la trattativa”.
“Alessandro è una persona straordinaria, un giocatore fantastico e dalla grande umanità. Un professionista esemplare fuori e dentro il campo. Come calciatore mi rifiuto di spiegare le sue qualità perchè note e sotto gli occhi di tutti”.
“Certo che Del Piero non invecchia veramente mai! E’ diverso da Zidane, a lui piace giocare, lo sente nell'anima; tra lui e il francese, scelgo lui”.
Quando parlano così di te due acerrimi rivali come Moratti e Ronaldo; uno straordinario tecnico come Marcello Lippi; ed un certo Diego Armando Maradona, allora vuol dire che hai fatto davvero qualcosa di incredibile. Ed in effeti Del Piero è stato un giocatore incredibile, per giocate e Palmàres, per carisma e continuità. Quando indossi la maglia della Juventus non ti viene chiesto di giocare bene o di entusiasmare, ma vincere. Il secondo posto è un fallimento, una stagione da buttare. Diventare il trascinatore, il leader, di una squadra del genere per vent’anni significa avere qualcosa di speciale. Una scintilla che si accende nei momenti più bui, come dopo la finale di Euro 2000, quando un suo errore sottoporta lo portò sul banco degli imputati per la sconftta azzurra. O come dopo la vittoirosa spedizione in Germania, quando fu il primo a non abbandonare la nave dopo la retrocessione in cadetteria, portando altri grandi campioni a fare una scelta di cuore.
Un fuoriclasse della Juventus e del calcio, cosacrato da compagni, avversari e dai tifosi. L’immagine del Santiago Bernabèu in piedi ad applaudirlo, dopo la fantastica doppietta del 2008, è forse uno dei momenti di sport più belli che io abbia mai visto. Il calcio come momento di aggregazione sociale, di gioia, di puro e semplice divertimento. Come quel sorriso dopo la rete al River Plate, con l’aria di chi sa di avercela fatta.
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