“Quando lasciai il Real, un paio di anni fa, il Barcellona mi contattò per due volte. Io però non accettai l’offerta. Non avrei mai potuto farlo, sono madridista dentro”.
Non esiste in Spagna una rivalità come quella fra catalani e castigliani, almeno non nello sport. Il Clasico è la partita fra i due simboli calcistici e non solo della penisola iberica, è un evento di cui si inizia a parlare settimane prima; non è paragonabile alle grandi sfide del campionato italiano o inglese, dove non è mai ben chiaro quali siano i due team più importanti e tifati del momento. In Spagna no, qui il Clasico è il Clasico, sempre. Poco importa chi sia davanti a chi e quanti punti di vantaggio abbia, perché Madrid-Barcellona è, prima di tutto, una sfida tra le due città simbolo di un modo di vedere il proprio paese completamente agli antipodi.
Da una parte c’è la capitale di uno Stato unitario, federale ma unitario. La capitale dove si concentrano i poteri, politici ed economici, che si posiziona simbolicamente al centro, per estendere le proprie reti lungo tutto il Paese. Dall’altra parte vi è la principale città della principale comunità autonoma, dove si parla una lingua differente, dove le differenze culturali sono talmente forti che si cerca insistentemente l’indipendenza. Non v’è partito politico, in Catalogna, per moderato che sia, che non firmerebbe domani stesso per rendersi indipendente. E qui, in questa città, c’è tanta cultura, tanta attrattiva turistica, c’è il mare. La forza dello scontro, come si può facilmente intendere, è prorompente.
Questa competizione e questa differenza sostanziale tra i due modelli si specchia nella contrapposizione tra due modelli calcistici agli opposti. Da una parte c’è il Real Madrid, una potenza economica senza eguali, con centinaia di migliaia di aficionados che detengono quote azionarie della società e che ogni estate compra il fior fior delle migliori leve del calcio internazionale, campioni di fama mondiale e i giovani più forti che si trovano sul mercato. Spende cifre da capogiro nel tentativo di portare nell’arena del “Santiago Bernabeu” le migliori “bestie” per far divertire il suo popolo e soddisfare la sua brama di vittorie. Sul versante opposto c’è il Barcellona, che gestisce la propria squadra con una filosofia completamente opposta, privilegiando la costruzione di un mondo e di un sistema-Barcellona con una propria fortissima identità culturale, preferendo puntare sui settori giovanili, la “masia”, in grado di sfornare campioni in casa. E’ la mentalità catalana a fare il resto, dove il gioco del calcio è visto come momento d’aggregazione e non come spettacolo per divertire un popolo. Ciò si riflette nella gioia che i giocatori di questo club esprimono nel giocare al calcio e con cui contagiano la propria tifoseria. Far parte del Barcellona, giocarci, allenarlo, dirigerlo, è come aderire a una filosofia di vita.
Real Madrid-Barcellona, la storia del calcio. C’è chi dice, in Spagna, che i catalani abbiano vissuto decenni in una sorta di complesso d’inferiorità per le vittorie accumulate in passato dai rivali. Non so se questo sia vero, se lo chiedete ad un catalano mai lo ammetterà; viceversa un castigliano sventolerà con orgoglio questo dato. Ciò di cui son certo, però, è che l’amore che lega gli spagnoli alla propria casacca, alla città in cui vivono, alla cultura che hanno appreso, li rende sostanzialmente unici. Qui in Spagna, si diceva, se ne parlava per settimane, ogni giorno, in ogni luogo, e su ogni giornale. Poi arriva il giorno della partita, si supporta la propria squadra, la si ama e la si sostiene incondizionatamente. E poi si ricomincia a discutere, a parlare del Clasico nel post match. Tutto questo fino alla partita successiva, che rappresenterà sempre un momento unico nella storia del calcio spagnolo.
La sera del 7 gennaio, all’indomani dell’Epifania, non solo ho imparato a conoscere il Clasico e la sua rivalità, ma ho anche approcciato per la prima volta un attaccante estremamente efficace. Non molto alto ma in possesso di uno stacco aereo impressionante; non bellissimo da vedere ma efficace come un killer silenzioso; non pubblicizzato ma sempre sul pezzo. Cileno, originario di Santiago del Cile, ha affinato il suo colpo forte fin da bambino “colpendo il lampadario di casa con la testa”. Sto parlando ovviamente di Iván Luis Zamorano Zamora, numero 9 madrileno per quattro anni prima di farsi conoscere nel Bel Paese, indossando la maglia dell’Inter ed essendo ricordato per la più strana casacca nella storia di un calciatore, l’unico ad indossare un numero combinato. L’1+8 richiesto ed accordato dall’Inter e dalla federazione rimarrà sempre un caso unico, proprio come il bomber cileno che annichilisce il Barça per inaugurare un 1995 davvero esaltante per lui ed il Real Madrid, chiuso con il successo in Liga.
Real Madrid e Barcellona si presentano all’appuntamento del Bernabeu con formazioni di tutto rispetto, come sempre. Non si tratta ancora delle formazioni fantascientifiche a cui siamo abituati negli ultimi dieci-quindici anni. Tuttavia parliamo sempre di giocatori di primissima fascia, alcuni campioni in erba ed altri già affermati. I padroni di casa, allenati dall’ex stella Jorge Valdano, offrono il solito calcio propositivo, votato all’attacco. Davanti a Buyo il leader della retroguardia è Fernando Hierro, pilastro della Spagna e uomo di gran carisma. La difesa è poi completata con l’eterno Manolo Sanchìs e Quique Sànchez Flores, recentemente tornato alla ribalta come allenatore. A centrocampo uomini di qualità eccelsa, a iniziare dalla stella danese Michael Laudrup, definito da Michel Platini “il migliore al mondo, ma solo in allenamento”. A “far legna” il nazionale iberico Amavisca accanto a cui agisce un altro grande talento del calcio locale, Luis Enrique, uno che appena un anno più tardi si macchierà del più grande sgarbo possibile: passare al Barcelona, il percorso inverso del portoghese Luis Figo, a cui il Camp Nou non perdonerà mai il tradimento. In avanti Valdano si affida alla sicurezza Zamorano e ad un giovane campione in erba, il classe 1977 Raùl Gonzalez Blanco. Su di lui mi hanno impressionato le parole di Valdano, che ha detto: “Il giorno prima del suo debutto gli sottoposi una questione per metterlo alla prova: “Sto pensando di farti giocare titolare, ma ho paura che possa sentire troppo la pressione.” Mi guardò con una faccia sbalordita, ma capì immediatamente quello che volevo sentirmi dire: “Se lei vuol vincere, faccia giocare me. Se vuole perdere, scelga pure uno qualunque”, rispose. Alcuni giocatori sanno giocare a calcio fin dalla nascita, alcuni giocatori sono uomini prima di uscire dall’adolescenza; alcuni giocatori sono vincenti senza ancora aver vinto nulla; alcuni giocatori continuano ad imparare dopo aver avuto successo. Tutti questi casi rari si fondono in Raúl, un tipo che, tra l’altro, appare assolutamente normale. Sono sul punto di esaurire le parole. Primo: sa fare tutto bene. Secondo: lo fa ogni giorno meglio”.
I blaugrana salgono a Madrid con la solita voglia di vincere. Johan Cruyff presenta un undici compatto, che rinuncia a sorpresa all’estro del brasiliano Romario. In porta Carles Busquets, padre dell’attuale mediano catalano; mentre la difesa è la solita linea a quattro, composta da Sergi, Abelardo, Ferrer e “Rambo” Koeman, carnefice della Sampdoria nella finale di Champions del 1991. A centrocampo Amor, Bakero e Guardiola garantiscono quantità e qualità; il romeno Hagi, ex d’occasione, è quella scintilla di imprevedibilità che deve, nei piani del santone olandese, innescare il bulgaro Stoichkov. Isolato e poco servito, il numero 8 faticherà a trovare spazio nelle maglie della difesa blanca, la rinuncia a Romario si rivelerà infatti un errore cruciale.
Pronti via la casa blanca mette sotto gli storici rivali. Passano appena quattro minuti e Raùl sporca un pallone in area. Sembra un’azione conclusa, ma come un falco arriva Zamorano. Il cileno controlla e spara un missile sotto la traversa, che lascia Busquets di sasso. Sulle ali dell’entusiasmo i madrileni continuano a spingere, ad attaccare. Il Barça non ci capisce nulla e dopo altri quindici minuti di “bambola” è ancora Zamorano a colpire. Luis Enrique lo pesca in area di rigore, l’attaccante protegge il pallone con il corpo dal ritorno di Ferrer e di piatto trafigge per la seconda volta l’estremo difensore. E’ la serata della vita per Zamorano, letteralmente immarcabile, tanto nelle palle alte quanto nei movimenti. Passano pochi minuti e Laudrup lo pesca con un cross delizioso. Il numero 9 arriva bene, si coordina ma il calcio al volo finisce in tribuna.
L’errore carica ancora di più l’orgoglio del sudamericano, che trascina i suoi. Proprio quando le squadre si avviano al riposo e Cruyff ha mandato a scaldare Romario, la doccia gelata. Laudrup contrasta caparbiamente Sergi, che si fa soffiare il pallone con la sufficienza di un dilettante. Il danese alza la testa e vede il taglio di Zamorano, che non deve far altro che appoggiare in rete e raccogliere l’ovazione del Bernabeu. Una tripletta nel Clasico è qualcosa di mistico, un evento che solo chi ha vissuto può spiegare. Farlo davanti a ottanta mila spagnoli in festa, che urlano “oi cileno”, penso sia una di quelle esperienze che tutti meriterebbero di vivere, di provare.
Come detto Johan Cruyff prova a correre ai ripari. Cambia modulo sostituendo il cervello del centrocampo, Guardiola, con il difensore Nadal, zio del grande tennista che imperversa oggi sui campi di tutto il mondo. A centrocampo fuori uno stordito Bakero e dentro Romario, il grande escluso della vigilia. Inevitabile che il Barça provi a far qualcosa, ad attaccare. Ma non c’è nulla da fare, il Real è troppo in palla, troppo superiore.
Laudrup, scatenato come raramente gli è capitato, salta uomini come birilli. Al limite dell’area scherza letteralmente Nadal, superandolo facendogli passare il pallone a destra e passando alla sua sinistra. Il cross è morbido, dolce come uno zuccherino. Zamorano è al posto giusto al momento giusto, ma il palo nega al cileno uno storico poker. Mentre Busquets prova a respingere vanamente, arriva Luis Enrique. Il tap-in è semplice come bere un bicchier d’acqua e l’esultanza con tanto di urla a squarciagola fotografa quanto il centrocampista dia alla sua maglia, tutto. Il Barça è annichilito, sulle gambe. Il Real Madrid non si ferma, anzi, continua ad attaccare. Giusto così, fermarsi e far possesso palla sarebbe un’umiliazione, se rispetti gli avversari e li consideri dei rivali giochi, sempre e fino alla fine. Barcelona e Real Madrid si detestano, ma sono ben consapevoli che devono la rispettiva grandezza l’una all’altra. L’unico modo per onorare la partita, quindi, è giocare al massimo sino al fischio finale. Lo fa il Real Madrid, lo farà il Barcellona in una storia che leggerete più avanti. E così, nemmeno due minuti dopo il 4-0, ecco servita la scala reale. La palla in profondità di Martin-Vazquez, subentrato a Raul, è geniale. Zamorano è solo davanti a Busquets, che esce qualche passo per chiudergli lo specchio. Il cileno è freddo, glaciale, serve l’accorrente Amavisca, uno che non ha mai avuto una particolare affinità con il goal. La palla però è perfetta, solo da spingere in rete. Lo spagnolo non si fa pregare e realizza il quinto goal, una lezione pazzesca per il Barça e Johan Cruyff, uno che a perdere non c’è mai stato.
Devo essere sincero, Cruyff non mi è mai stato simpaticissimo. Campione assoluto, innegabile questo, ma che non sento mio. Non l’ho vissuto in prima persona e le poche volte che l’ho sentito parlare, da allenatore, aveva modi troppo arroganti. Eppure una delle sue frasi, secondo me, racchiude l’esenza di questo sport, della lotta e dell’impegno che serve per emerge. “Durante ogni allenamento, qualunque sia il tuo sport, ti senti distrutto perché in ogni allenamento devi andare oltre quello che sul momento ti sembra il tuo limite: tu cominci a correre, a scattare a calciare e dopo un po' ti sembra di aver esaurito ogni energia, mentre hai solo esaurito quello che io chiamo "primo fiato". A quel punto bisogna sforzarsi per superare la piccola crisi che sembra bloccarti, per arrivare al "secondo fiato": che ovviamente arriva solo dopo qualche minuto di sofferenza. Quando l'allenatore dà lo stop senti il cuore che batte vertiginosamente, sembra che debba scoppiarti nel petto: devi riuscire a ricondurlo al suo ritmo normale in meno di due minuti; se non ci riesci è meglio che apri una tabaccheria o tenti di diventare Presidente del Consiglio: vuol dire che hai sbagliato mestiere”.
Il Real ha giocato e non si è fermato, non ha mai rallentato il ritmo, proprio come suggeriva il guru olandese. E per questo, ne sono sicuro, un uomo di sport come Joahn ne è stato felice.
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