La fine di un'era, la caduta degli Dèi, la tomba dei campioni. Da ore se ne sentono di cotte e di crude sulla prematura uscita della Spagna al Mondiale, un evento che francamente si aspettava quasi nessuno. Eppure questa è la bellezza del calcio e dello sport, la sua imprevedibilità. Non c'è mai nulla di scritto e di scontato, la situazione può essere ribaltata in qualsiasi momento e modo. L'emblema di quanto sto dicendo, a mio avviso, è proprio la partita inaugurale delle Furie Rosse in Brasile, contro la bella Olanda di Van Gaal. Gli spagnoli non solo non hanno giocato male, ma hanno addirittura dominato il primo tempo. Sono andati in vantaggio, hanno avuto l'occasione per raddoppiare, poi l'inspiegabile black-out. Dal goal di Van Persie è radicalmente cambiato il vento, le certezze iberiche si sono sgretolate ed il castello è crollato, come spazzato via dal vento.
La prematura uscita di scena della Spagna, però, era prevedibile. Non a livello tecnico, dove gli uomini di Del Bosque partivano giustamente come favoriti, ma sul piano della cabala. Dal 2002 ad oggi, infatti, il campione uscente del Mondiale ha praticamente sempre faticato e raccolto magre figure. A cominciare dai nostri amici transalpini, tramortiti in Corea e Giappone dal Senegal di Diouff e Fadiga e dall'Uruguay di Forlan. Poi gli azzurri, che, da campioni in carica, in Sud Africa sono stati eliminati in un girone così ridicolo da far dimenticare a tutti la storia del falso dentista coreano Pak Doo-Ik, carnefice dell'Italia a Inghilterra '66.
Questa non è altro che la sindrome della "pancia piena". L'appagamento è il male più grande che possa attanagliare uno sportivo, quando mancano stimoli e grinta la sconfitta è inevitabile. Gli spagnoli, per quanto si possa giudicare dall'esterno, sono una squadra svuotata di energie, fisiche e mentali. Hanno vissuto 8 anni al massimo dopo una storia secolare di sconfitte e figuracce, e non sono riusciti nel cambio generazionale.
Gran parte della rosa è quella reduce dal vittorioso europeo di Austria e Svizzera, ma gli anni passano per tutti. Casillas è l'ombra si sè stesso, resta un buon portiere ma ha dimostrato negli ultimi mesi di non avere lo spessore tecnico e mentale di uno come Buffon.
La difesa, orfana dell'unico vero marcatore, Puyol, ha fatto acqua da tutte le parti. La cattiveria di Ramos e il dinamismo di Piquè non bastano, specie se a presidiare le fasce laterali ci sono Jordi Alba e Azpilicueta, bravi nella fase di spinta e molto meno in quella di contenimento.
Il centrocampo, fiore all'occhiello degli iberici, ha perso (era in panchina) il vero metronomo, Xavi Hernandez. Il fatto che il Barcelona abbia accettato di privarsene, e che lui abbia detto sì all'esperienza Qatariota, sono segnali inequivocabili. Iniesta non è più il ragazzo che si toglie la maglia sotto il cielo africano e porta in Spagna la Coppa del Mondo, Javi Martinez uno dei calciatori più sopravvalutati del millennio. Restano Xabi Alonso e Silva, che hanno fatto ciò che potevano ma non bastavano. Ecco allora emergere le colpe di Del Bosque, che ha preferito lasciare a casa gente come Borja Valero e Gabi, ed in panchina uno come Koke, capace di fare la differenza con l'Atletico Madrid.
Davanti, il nulla. Il naturalizzato Diego Costa non ha giocato male, ma era solo, troppo. Torres è da ormai quattro anni un fantasma e Villa ha fatto il turista in Brasile aspettando l'MLS.
Ecco la ricetta del disastro. Quando non hai motivazioni, quando credi di essere il più forte, nello sport vieni punito. E' un male comune a molti, ed è il motivo per cui ammiro così tanto gente come Del Piero, Maldini, Jordan, Valentino Rossi e Nadal. Uomini affamati, cannibali della vittoria. Sportivi che hanno cercato (o cercano tutt'ora) il successo dal primo all'ultimo giorno; che hanno saputo riprendersi da gravi infortuni e combattono quotidianamente contro l'idea di perdere. E' questo l'unico avversario da sconfiggere, ma è il più difficile.
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