Una fotografia sui migliori numeri 10 dell'ultimo ventennio? Ce la regala il collega ed amico Alfredo De Vuono, dalle colonne di Fantagazzetta, altro blog per cui Esperto di Calcio presta la sua penna.
Sapete cos'hanno in comune Baggio, Del Piero, Totti e Cassano? Tre cose. Sono tutti e quattro italiani; sono stati, tutti, grandi calciatori; hanno vestito, seppur in epoche diverse, e più o meno a lungo, la casacca numero 10 della Nazionale. Stop. Poi ognuno di loro ebbe, ha ed avrà una storia e sé. Sta di fatto che saranno loro quattro i fantasisti del ventennio a cavallo del giubileo di cui racconteremo ai nostri figli.
Ognuno di noi avrà un suo preferito. Poi ci sarà il preferito di tutti, che farà gara a sè, perché super partes: è Roby Baggio e di lui, in questa storia, non parleremo, se non per la tangente. Un po' per non scomodarlo dall'Olimpo del calcio in cui risiede sin da quel triste 16 maggio 2004; un po' perché, a prescindere dalla fazione cui si appartenga, anche un minimo sputo d'oggettività sarebbe sufficiente a considerarlo il migliore dei migliori, ed a prescindere. Roberto, oltre che le epoche, ha cavalcato le squadre. Le ha fatte sue, in tutta Italia, lasciando dovunque, e comunque, un ricordo gastronomicamente metaforizzabile al latte materno. Antico, dolcissimo, irrecuperabile una volta che se n'è potuto godere: talmente piacevole da formare il gusto della vita che, sui campi verdi, diventa gusto del pallone. Un' enorme tetta alla quale s'è abbeverata mezza Italia.
L'altra mezza stava lì, a poche centinaia di chilometri, o davanti a un televisore, a goderne di rimando, anche vagamente invidiosa. Il tutto mentre lui, Roberto, la mamma - fors'anche manna - del calcio, saltava di fiore in fiore a irrorare i ruvidi palati. Tutti lo hanno rimpianto, e nessuno ha inveito contro di lui, quand'anche le circostanze e gli uomini che contribuivano ai suoi trasferimenti facevano sì che, in media ogni triennio, cambiasse squadra.
Esattamente l'opposto di quanto accade, tuttora, ad Antonio Cassano. Con qualche rimpianto, quello sì, disseminato qua e là, ma più che altro per lui: non per la squadra che lasciava. Per il suo talento lasciato intorpidire per anni all'ombra del lato oscuro del suo carattere: fumantino, iracondo, protagonista, al limite egoista. Una carriera buttata al vento, dicono in tanti; una carriera comunque da ricordare, continuo a sostenere io. Anzi, forse sarà anche di lui che narreremo le gesta ai posteri, tanto come esempio da non perseguire per approccio mentale allo sport professionistico, quanto come fulgido e folle talento, nella cui storia la sregolatezza ha sempre fatto uno-due col genio. A differenza di Totti e Del Piero, lui - il ribelle furioso che venne cacciato, giocoforza, prima da Roma, poi da Madrid, Genova, Milano I e II - delle pillole di bellezza le ha regalate un po' dovunque, per l'una e l'altra fazione. Senza riuscire a legarsi a nulla, se non a sè stesso, e senza riuscire a farsi voler bene da nessuno, se non da sé stesso. E' proprio per questo che, vedrete, sarà di lui che alla fine si parlerà.
Non di Francesco o di Alex, parimenti amati dai loro sostenitori e osteggiati dai rivali: perché Cassano ha fatto poco, ma per tanti; mentre Totti e Del Piero tantissimo, ma per pochi.
E nessuno di loro, a differenza del divino, ha saputo, in azzurro, fare anche solo un decimo di quanto dimostrato nelle squadre di club.
Non che le loro carriere siano minimamente paragonabili, per carità: per vittorie, professionalità, rendimento, continuità ed affidabilità, Totti e Del Piero hanno saputo dimostrare ben altro. Ma con medesime carature tecniche di fondo, ed è questa la discriminante fondamentale, che pone lui, il pazzo di Bari vecchia, alla pari di questi altri due pezzi di storia nostrana del calcio, seppur solo per capacità e "sulla carta", come dicono quelli bravi.
E' per questo motivo che parleremo, in futuro, di Antonio Cassano almeno quanto lo faremo di Del Piero e di Totti. Storie, vite, caratteri e carriere profondamente diversi nella forma, seppur eguali nella loro sostanza di campioni. Non di fuoriclasse, però. Per quello c'è un nome solo. E non è nato né a Bari, né a Conegliano, né tantomeno a Roma.
Si dice che la differenza stia nel fatto che, mentre il campione, quando ti aspetti faccia una cosa, ne fa una seconda, il fuoriclasse, invece, ne inventa una terza. Anche da questo punto di vista Antonio Cassano resterà sempre un 'semplice' campione. Perché quando andò all'Inter tutti pensavano che ci sarebbe rimasto poco. Ma non così poco: ecco perché, andando via dopo solo un anno, ha fatto - solo - la seconda cosa che c'aspettavamo. La terza, forse, sarebbe stata restarci. E non sarebbe bastata comunque.
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