Esperto di Calcio

This is default featured post 1 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.This theme is Bloggerized by Lasantha Bandara - Premiumbloggertemplates.com.

This is default featured post 2 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.This theme is Bloggerized by Lasantha Bandara - Premiumbloggertemplates.com.

This is default featured post 3 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.This theme is Bloggerized by Lasantha Bandara - Premiumbloggertemplates.com.

This is default featured post 4 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.This theme is Bloggerized by Lasantha Bandara - Premiumbloggertemplates.com.

This is default featured post 5 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.This theme is Bloggerized by Lasantha Bandara - Premiumbloggertemplates.com.

31 ottobre 2013

Storie di calcio: Ryan Giggs

Ryan Giggs, o più semplicemente "la leggenda". Non credo esista al mondo calciatore più forte e longevo del gallese nel suo ruolo. Tecnico, con una classe spropositata ed un carisma senza pari. Il numero 11 dello United, per me, sarà sempre e solo lui.
L'affilata penna di Elio Goka descrive bene chi è stato Ryan Giggs, e penso valga la pena leggere alcuni passi del suo pezzo, con cui conconrdo in pieno. Specie quando afferma che "France Football ha spesso seri problemi d’intendimento del calcio". 

Doveva andare così. Le inquietudini del giovane Giggs e quelle del veterano navigato trequartista del Manchester delle meraviglie. La corte di sir Ferguson lo sapeva già quando nel 1990 "king" Alex prese con sè il diciassettenne Ryan, giovane promessa del calcio gallese, tipo dritto e spigoloso, che col padre aveva già fatto scintille quando, più o meno in quello stesso periodo, cambiò cognome e nazionalità, passando dal paterno Wilson al Giggs materno, e cucendosi in petto lo stemma gallese al posto di quello inglese. Uno sgarro a sua maestà la regina? No, uno sgarro a chi non andava d’accordo con lui.

Ma la "faida familiare" di hot style, dal sapore "appena appena segreto", il midfielder neo gallese ce l’aveva nel sangue. Come tutti gli irrequieti del Regno Unito, non ha perso tempo per trasferire le sue inquietudini personali sul pettegolezzo da soap americana, facendo parlare di lui non soltanto come calciatore unico nel suo genere, capace di vincere, in oltre 23 anni di United, 13 campionati, 4 coppe d’Inghilterra, 4 coppe di Lega inglese, 10 Charity Shield, una Coppa delle Coppe, due Champions league, una Supercoppa Uefa, una Coppa intercontinentale e un Mondiale per club. Il pallone d’oro non glielo hanno dato, ma soltanto perché la France Football ha spesso seri problemi d’intendimento del calcio.




Ma tornando al Giggs dal “doppio passaporto”, agenti segreti del gossip pare abbiano rivelato di lui come eroe vivente delle novelas d’oltremanica, perché sembra che la bella e avvenente Natasha, moglie del fratello di Ryan, Rodry, abbia avuto una relazione col fantasista inglese, pardon, gallese, e che pure la mamma di Natasha, Lorraine Lever, abbia ricevuto avance dal fascinoso calciatore.

Tutta colpa dei social network, le rivelazioni, armi a doppio taglio per le cocenti scappatelle dei personaggi famosi, talvolta beccati sul fatto come i principi ribelli nelle tresche di corte.

Intanto, già qualche anno prima dello scandalo, Ryan aveva annunciato il ritiro dal calcio giocato, attraverso una autobiografia pubblicata nel 2005, ipotizzando di non essere più in grado di sostenere i ritmi del soccer muscolare. Nel marzo 2013, in occasione di Manchester United-Real Madrid, valevole per gli ottavi di Champions league, Ryan Giggs raggiungeva quota mille presenze nello United. Qualcosa gli aveva fatto cambiare idea, in quell’anno che ormai appartiene ai ricordi, come quello in cui era stato espulso per l’unica volta nella sua carriera di professionista onorato e indiscusso, capace di allinearsi sul podio di Bobby Charlton e George Best. Un tipo da poesia, da romanzo dell’Ottocento, da protagonista del poema epico pallonaro, con l’aria seriosa, la rosa in bocca e l’istinto da latin lover. Forse pure troppo.

Una cosa di lui si può dire, sfidando chiunque. Ci sono tanti presunti grandi calciatori in giro, ma come lui nessuno. Questo è ancora più sicuro, e perdonate la certezza. Con uno come lui, possiamo rischiarla.

30 ottobre 2013

Storie di calcio: Johan Cruijff

Ho conosciuto il giocatore Johan Cruijff solo attraverso le parole di mio padre, i libri ed i video che ho trovato in rete. Come allenatore non mi è mai piaciuto, come uomo nemmeno. Troppo arrogante e spocchioso per i miei personali gusti, ma come giocatore era un Dio. Storie di Calcio racconta quindi le vicende del campione olandese, grazie alla storia redatta dall'omonimo sito.

Se è vero che ogni rivoluzione ha un volto, anche il Sessantotto calcistico ebbe il suo "Che".
Nien­te barba, niente sigaro, faccia da beatle piuttosto, per il condottiero di una rivol­ta senza barricate: la rivoluzione arancione del calcio totale. Johan Cruijff fu l'alfiere del nuovo corso varato da Michels e proseguito da Kovacs all'Ajax degli ultimi anni Sessanta.
L'uto­pia di un calcio fatto di movimenti in­cessanti, di alternanza nei ruoli, di gio­catori capaci di uscire dalle rigide clas­sificazioni degli spartiti tradizionali, trovò in lui l'interprete capace di tradur­la in realtà. In che ruolo gioca Giovanni il Grande? Impossibile spiegarlo secon­do i vecchi criteri.
È un attaccante, sì, ma senza fissa dimora: svaria, rientra, difende, imposta, conclude.
Il tutto a ve­locità doppia rispetto a quella dei suoi colleghi. Non esistono modelli a cui ri­condurre un giocatore che si distingue anche dal numero: non gli bastano quelli dall'1 all'11 ; Cruijff per tutta la carriera indosserà il 14, intimo riferi­mento al primo successo. Aveva 14 an­ni quando vinse, con l'Ajax il suo primo titolo giovanile. Johan era un "lanciere" dalla nascita: i suoi genitori abitavano a due passi dallo Stadion De Meer, in cui lui entrò per la prima volta a 4 anni.
Al­la morte del padre ne aveva 12 e fu praticamente adottato dall'Ajax, che aveva assunto la madre come lavan­daia. Il ragazzino aveva talento e sgu­sciava tra gli avversari a una velocità sorprendente, ma era fragile come un cristallo. Fu addirittura Vìe Buckingham, allenatore della prima squadra, a prendersene cura, impostando per lui uno specifico programma di rafforza­mento. Quando, nel 1966, Michels ap­prodò ad Amsterdam, si ritrovò per le mani un campione dician-novenne che aveva già un posto stabile nell'Ajax e da poco si era affacciato alla Nazionale.
Il burbero Rinus non chiedeva di meglio: il suo progetto pretendeva giocatori giovani e di talento, il vivaio dei Lancie­ri gli mise sul piatto, oltre a Cruijff, gen­te del calibro di Krol, Haan, Keizer, Suurbier, Neeskens e Rep.

L'Ajax coglierà i frutti del nuovo cor­so nel giro di tre anni: il 28 maggio 1969 i Lancieri approdano per la prima volta alla finale di Coppa dei Campioni. Ma a Madrid l'eroe è Pierino Prati che con tre gol regala la coppa al Milan (4-1). L'Ajax però è una squadra giovanis­sima, il suo tempo deve ancora venire. E infatti, due anni dopo, si replica: nel 1971 il ventiquattrenne Cruijff è già un'attrazione nel panorama calcistico internazionale. A Wembley, contro il Panathinaikos, l'Ajax apre un ciclo irripe­tibile. Dopo il 2-0 ai greci, arriveranno il bis e il tris. Nel 1972 una doppietta del "Papero d'oro" piegherà l'Inter di Mazzola e Boninsegna; nel 73 sarà Rep, dopo appena 4', a segnare a Zoff il gol de­cisivo: Ajax-Juve 1-0.

Nel frattempo, con l'Intercontinentale del 1972, era arrivata anche la consacrazione mondiale. Una serie di trionfi che aveva consentito a Johan di vincere per due vol­te il Pallone d'Oro, impresa riuscita fino ad allora solo al grande Di Stefano. Bella storia, quella dell'Ajax e del suo figlioletto cresciuto amorevol­mente a pane e pallone. Storia breve, però, e senza lieto fine: il ragazzino cre­sce e non resta insensibile al richiamo della moneta sonante. Da Barcellona sparano una cifra all'epoca iperbolica: l'equivalente di tre miliardi di lire. Il 19 agosto 1973 Cruijff gioca la sua ultima partita con i Lancieri, saluta, ringrazia e parte per la Spagna. La Catalogna im­pazzisce: 55.000 abbonamenti vengo­no bruciati in pochissimi giorni. Il Profeta non delude: quando al Nou Camp arriva l'odiato Real, simbolo del centralismo franchista, il Barga lo tra­volge con cinque gol e si avvia a vince­re un titolo che sulle ramblas non fe­steggiavano da 14 anni. Il Mondiale te­desco è alle porte, il Mondiale di Cruijff e dell'Arancia Meccanica, dicono tutti. Ma Johan ha sempre avuto un rap­porto difficile con la Nazionale. Orgo­glioso e dispotico, il principe non ha mai digerito l'affronto che la Federazione gli aveva fatto otto anni prima. Alla secon­da presenza in Nazionale, il 6 novembre 1966, era riuscito in un'impresa storica: primo giocatore espulso nel lungo cammino degli Orange. Il record gli costò un anno di squalifica, sanzione che peraltro venne immediata­mente attenuata, ma che la­sciò il segno sull'umore mai particolarmente stabile di Re Giovanni. Cruijff da quel mo­mento in poi si sarebbe con­cesso con molta parsimonia alla Nazionale, soprattutto dopo il trasferimento in Spagna. Così il Mondiale della definitiva consacra­zione in realtà consacrò soltanto il pragmatismo vecchio stam­po della Germania Ovest di Beckenbauer e di Berti Vogts, mastino ringhio­so che nella finalissima non concesse un centimetro all'estro di Cruijff.

La delusione fu ricompensata pochi mesi dopo dall'assegnazione del terzo Pallone d'Oro, un primato che sarebbe stato eguagliato più avanti soltanto da Platini e Van Basten. Il traballante ma­trimonio con la Nazionale si concluse dopo tre stagioni: questione di soldi, tanto per cambiare.
Nel 78, a 31 anni, Cruijff, che nel frattempo ha sposato la figlia di un ricco mercante di diamanti, non insegue più la gloria, ma gli ingag­gi. Lascia anche il Barcellona e per tre stagioni gira in lungo e in largo gli Stati Uniti, il nuovo Eldorado. Torna nel vec­chio continente nell'81 e gioca una par­tita - al Mundialito per club - col Milan. Cruijff, però, non è più il fulmine di guer­ra di un tempo e si deve accontentare di un contratto a gettone (dieci partite in tutto) con il Levante, seconda divisione spagnola. A fine stagione, l'ultimo colpo di teatro: Cruijff torna all'Ajax. Giusto il tempo di vincere altri due titoli olandesi (in tutto fanno otto), prima di consuma­re, a 36 anni suonati, l'ultimo tradimen­to: chiudere la carriera con la maglia dei rivali di sempre, il Feyenoord. Anche come allenatore Cruijff ha tagliato traguardi molto prestigiosi. Ha guidato l'Ajax dal 1986 al 1988 e il Barcellona dal 1988 al 1996. Con gli spagnoli ha vinto quattro scudetti, una Coppa dei Campioni e una Coppa delle Coppe. Si ritirò dal mondo del calcio nel 1997 a causa di seri problemi di salute di natura cardiaca, tanto è vero che dovette sottoporsi ad un delicato intervento al cuore, dove gli furono applicati alcuni by-pass. Johan Cruijff «Non penso che arriverà il giorno in cui, quando si parla di Cruijff, la gente non saprà di cosa si stia parlando»

tratto da: http://www.storiedicalcio.altervista.org/cruijff.html

29 ottobre 2013

Storie di calcio: Felice Centofanti

C'era una volta il calcio dei Centofanti, degli Agostini e dei Luiso. Sul Toro di Sora mi sono soffermato più volte, narrando le sue vicende come singolo e come leader del Vicenza delle meraviglie. Oggi, quindi, non voglio parlare nè di lui nè dell'Ancona, ma di un personaggio che ha "segnato" la mia infanzia: Felice Centofanti.

Approdato all'Inter via Ancona, il terzino di Teramo è stato uno di quei flop memorabili. Famoso per le sue acrobazie e la sua capigliatura, arriva in nerazzurro al posto di un ragazzotto brasiliano, bollato dall'attuale c.t. inglese Hodghson come "inadatto". Quel ragazzo era un certo Roberto Carlos, non so se mi spiego.
Con queste credenziali, quindi, il fallimento era dietro l'angolo. E infatti con i meneghini gioca poco, male e viene venduto veloce come la luce ad un Genoa che ormai aveva imboccato la strada del fallimento.
Prima di essere risucchiato nel vortice nerazzurro, però, Centofanti è stato un istrionico giocatore, capace di gesti acrobatici degni di nota.
Potrei raccontare dei suoi fallimenti, di come sia finito a fare l'inviato per Striscia la Notizia o chiuso la carriera alla Sannicolese, squadra che nemmeno gli abitanti dell'omonimo paese tifano. Eppure non voglio, perchè preferisco ricordare Felicione con una delle sue rovesciate più belle.

28 ottobre 2013

Storie di calcio: Didier Deschamps

Capitano della Francia campione del mondo e d'Europa. Basterebbero queste credenziali per descrivere uno dei mediani più forte di tutti i tempi, Didier Deschamps.
Didier Claude Deschamps nasce a Bayonne il 15 ottobre 1968. Cresce calcisticamente nel Nantes, dove gioca per cinque stagioni, prima di approdare una prima volta a Marsiglia, nel 1989. L’anno successivo veste la maglia del Bordeaux per poi tornare a giocare tre stagioni nell’Olympique Marsiglia, dove vince lo scudetto, la Coppa dei Campioni e conquista il posto fisso nella Nazionale transalpina.
Deschamps viene acquistato da Luciano Moggi nell’estate del 1994 e subito si infortuna gravemente. La parziale rottura del tendine d’Achille costringe Didier a farsi operare ed affrontare una lungaa convalescenza. Ma Didier, mediano tosto di origini basche, non è il tipo che si arrende facilmente. Nemmeno il tempo di guarire che si è preso in mano il centrocampo della Juve, stegando Lippi, che lo elegge immediatamente a perno della squadra. Con il portoghese Paulo Sousa compone una coppia di centrocampo fortissima, che porta la squadra bianconera a vincere scudetto e Coppa Italia ed arrivare in finale di Coppa Uefa.
"Cosa ho trovato a Torino? Una grande società, una professionalità impeccabile da parte di tutti, dal magazziniere al massaggiatore, dai medici al presidente e tutti i dirigenti. Ci mettono nelle migliori condizioni per dare sempre il cento per cento. Sono arrivato a Torino che avevo vinto due campionati francese ed una Coppa dei Campioni, ma la Juventus mi ha dato ancora di più". Deschamps si identifica completamente con la Vecchia Signora, aprendo la strada ad una serie di grandi giocatori francesi: Zinedine Zidane e David Trezeguet su tutti.

Fortissimo nel pressing a tutto campo e nel tackle, Didier ha un senso della posizione che gli consente di integrarsi con qualsiasi compagno, senza la minima difficoltà. É uno di quei giocatori che fanno sempre sentire la loro preseza in campo. La sua grande generosità agonistica, unita ad uno spiccato senso tattico, fanno di Deschamps un campione a trecentosessanta gradi. Il numero di palloni che tocca ed i chilometri che percorre sono incalcolabili. L’unico difetto che gli si può appuntare è che segna raramente: infatti, nelle 178 partite disputate con la Juventus, realizza solamente 4 goal.
Diventa insostituibile anche nella Nazionale francese della quale è l’indiscusso capitano e con la quale vince il Mondiale casalingo del 1998 e gli Europei olandesi del 2000; con la maglia “bleu” totalizza 103 presenze e 4 goal.
Con la Juventus disputa altre quattro stagioni ad altissimo livello, vincendo tutto quello che si può desiderare: in totale il suo palmares vede 3 scudetti, una Coppa Italia, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea e due Supercoppe Italiane.
Nel 1998 entra, come altri suo compagni, in contrasto con Marcello Lippi, con il quale si rompono i rapporti. In estate viene ceduto e lascia Torino per raggiungere Vialli al Chelsea, dove ritrova Marcel Desailly, suo storico compagno in Nazionale. L’esperienza inglese si rivela deludente e Didier decide di chiudere la carriera giocando un anno nella Liga, con il Valencia.

Allenatore nato, diventa ben presto tecnico affermato. Con il Monaco sfiora una Champions League, arrendendosi al solo Porto di Mourinho. Nell’estate del 2004 è il maggiore candidato a sedere sulla panchina della Juventus del dopo Lippi, ma Umberto Agnelli impone a Moggi, Giraudo e Bettega la scelta di Fabio Capello. L’appuntamento con la sua Signora è solamente rimandato di un paio d'anni. Nella turbolenta estate del 2006, infatti, la nuova dirigenza bianconera lo ingaggia, per riportare la Juventus in serie A. Quando mancano due giornate alla fine del campionato 2006/07, raggiunta la matematica promozione nella massima serie, Didier rassegna le proprie dimissioni da allenatore della Juventus. La decisione, sofferta e forse sbagliata, è dettata da un pessimo rapporto con la dirigenza dell'epoca, in primis con quell'Alessio Secco che da lì a pochi anni sarebbe stato cacciato. Deschamps, infatti, sa di calcio e vuole solo un paio di acquisti di spessore. Secco ed il resto della dirigenza, invece, impongono giocatori mediocri come Tiago, Almiron e Iaquinta. Didier da Bayonne non ci sta, saluta tutti e lascia Torino per la seconda volta in carriera.

Didì, intervistato poco dopo la scelta, si dichiara pentito: "Sul momento mi sembrò una decisione giusta, coerente. Invece fu un errore tutto mio. Con il passare del tempo ho realizzato che la gente del calcio non aveva colto le ragioni di quella mia scelta. Faccio un esempio: venni contattato dal Liverpool e la prima cosa che i miei interlocutori mi chiesero durante la riunione fu: “Perché se ne andò dalla Juve?”.
Io e la società avevamo visioni diverse sul futuro e devo dire che anche chi mi stava vicino, come il mio agente, non mi consigliò al meglio. In pratica nulla fece per ricomporre la frattura. Fatto sta che venivamo da un’annata psicologicamente difficile, in cui ci ritrovammo in città e stadi mai visitati prima dalla Juve. Ogni partita era una battaglia. Consumammo davvero molte energie e sapevo che le aspettative l’anno successivo sarebbero state ancora più alte. Ma non si poteva pretendere di vincere subito lo scudetto, bisognava andare per gradi. Ricostruire.
La mia posizione all’epoca era chiara: meglio prendere tre giocatori fortissimi all’anno, piuttosto che sei o sette di medio valore. Per essere all’altezza del proprio passato e delle aspettative che la circondano, la Juve ha bisogno di un continuo ricambio di campioni. Certo la qualità ha un prezzo, ma in quell’anno in B riuscii a lanciare giovani come Marchisio e De Ceglie, quindi potevamo concentrarci su pochi rinforzi di alto livello. Ed il discorso regge anche se parliamo di due grandi rinforzi, piuttosto che cinque arrivi di medio valore».
Deschamps non chiude la porta: «Nell’estate 2006 accettai la panchina della Juve senza sapere se avrei allenato in C, in B e con quale penalizzazione. Si parlava di -30, -18. Fu un modo per sdebitarmi con chi mi aveva dato tantissimo nei cinque anni vissuti a Torino da giocatore. Ottenendo la promozione in A penso di avere saldato il mio debito, di essermi messo in pari".

Di una cosa sono certo al mille per mille, nessuno Torino riserverà mai altro che applausi a Didier. Per quello che ha fatto in campo ed in panchina, e chissà che un giorno non possa tornare e vincere al timone della Signora.

27 ottobre 2013

Storie di calcio: Ruud "Van Gol" Van NIstelrooy

Raramente ho visto un'attaccante piu' completo di Ruud Van Nistelrooy. Potente fisicamente ma allo stesso tempo agile; fortissimo nel gioco aereo ed in possesso di un'eccellente tecnica di base, un dribbling secco e preciso e di quello istinto da killer negli ultimi 30 metri che solo i grandi centravanti possono vantare. Un senso del gol allucinante, Ruus era sempre al posto giusto e al momento giusto. Capace di segnare reti semplici come marcare con acrobazie di grande fattura, il bomber olandese faceva reparto da solo. Ancora giovane e poco conosciuto, Van Nistelrooy strega nientemeno che Sir Alex Ferguson grazie alla sua completezza. Sapeva usare indistintamente il destro o il sinistro ed era un campione vero, che sapeva risolvere le partite da solo.

Rotgerus Johannes Martinus Van Nistelrooy, al secolo “ Ruud”, masce a Oss, Olan­da, l’1 luglio 1976. Una vita passa­ta a fare gol quella del bomber tulipano, come i suoi numeri testimoniano in maniera impietosa e netta. 354 reti in 569 partite tra i professionisti, una me­dia mostruosa che gli è valso l'invidiabilissimo record di es­sere stato almeno una volta capocan­noniere in tre campionati diversi.

E pensare che Ruud “Van Gol” (co­me lo battezzarono i supporters del Psv) cominciò la carriera da difen­sore centrale. Poi, alla terza stagione al Den Bosch (squadra in cui è cre­sciuto) arrivò la svolta: da difensore centrale a prima punta. L’anno suc­cessivo (stagione ‘96-’97) realizzò 12 gol in 31 partite, prima di passare al­l’Heerenveen dove ne mise a segno 13 (31 match). Nel 1998, con il pas­saggio al Psv, arrivò l’esplosione: in tre anni ad Eindhoven, Van Nistelro­oy fece 75 reti in 91 presenze totali. Fu allora che il Manchester United di Ferguson gli mise gli occhi addos­so. I Red Devils lo acquistarono nel 2000, ma a causa di un brutto infor­tunio ai legamenti, il trasferimento venne rimandato di un anno. In Pre­mier, Ruud rimase 5 anni (2001-’06) mettendo ancora una volta insieme medie imbarazzanti: 150 gol in 219 presenze totali.



Divenne l’idolo del­l’Old Trafford, ma dopo la rottura dei rapporti con Ferguson, decise di cambiare aria. Passato a giocare nella Liga, con la maglia del Real Madrid, forse la squadra più nobile della storia del calcio. Con la camiseta blanca addosso la storia cambiò poco o nulla. Ruud continuò a fare sistematicamente gol conquistando, nel suo primo anno al Real Madrid, campionato e titolo di Pichichi con 25 gol. In tutto, nei pri­mi tre anni (’06-’09) in maglia “blan­ca”, riuscì a segnare 66 reti in 97 ap­parizioni. Questione di numeri, che nel caso di Ruud Van Nistelrooy, parlano abbastanza da riuscire a spaventare compagni, avversari e tecnici. Proprio questi ultimi son sempre stati il suo cruccio. Metterlo in panchina non è mai stato facile, la soluzione migliore è sempre stata la cessione. E' successo con la maglia dello United; è successo con il Real Madrid. Saluta il calcio professionistico con una stagione in Bundesliga, con l'Amburgo, ed il canto del cigno con il Malaga, portato in Champions League per la prima volta nella storia.

26 ottobre 2013

La strana coppia: Dario Silva-Muzzi e quella maledetta stagione all'ombra dei Nuraghe

Correva l'anno 1996. Andre Agassi vinceva le Olimpiadi di Atlanta, viene clonata la pecora Dolly e la Sardegna piangeva la retrocessione in B del Cagliari calcio.
Sarebbe banale palare delle sfuriate di un Carletto Mazzone ancora in formissima o delle papere di Marco Pascolo e Giuseppe Pancaro, ben più interessante è invece focalizzare la nostra attenzione sulla coppia goal dei rossoblu: Muzzi-Dario Silva.

Sulla carta i due attaccanti sono forti e ben equilibrati. Roberto "tamarria" Muzzi è un coatto romano, fisicato come pochi e con il vizio del tatuaggio che sta per esplodere. Approdato in Sardegna fra mille speranze, ha vissuto una prima stagione disastrosa. Dario Silva, eclettico centravanti uruguagio, è invece approdato nella bella isola italiana con l'etichetta di nuovo Francescoli. Bastano poche partite ai tifosi rossoblu per capire che Dario Silva non è nemmeno lontano parente di Enzo Francescoli, ma sa far impazzire le donne come pochi al mondo. In coppia con Fabian O'Neill è idolo incontrastato delle movida cagliaritana, e i risultati in campo ne sono lo specchio perfetto.
Carletto Mazzone, approdato anche lui in Sardegna dopo tre anni a smadonnare sotto la Sud giallorossa, è tecnico verace. Ama il gioco maschio e ha scelto il Cagliari perchè vi militano alcuni dei maggiori falegnami che la storia del calcio italiano ricordi. Pascolo, l'estremo difensore elvetico, ha un cognome che è tutto un programma e spiega fin da subito quella che era la sua vera vocazione: fare il margaro.
La retroguardia è composta da un giovane è già stempiato Pancaro, da Lorenzo "tibia in spalla" Minotti, reduce da alcune proficue stagioni in quel di Parma, Mirko Taccola ed un Gianluca Grassadonia troppo brutto per essere vero. Se a questo parco talenti aggiungiamo lo svizzero Ramon Bega; un Gianbattista Scugugia che deve ringraziare gli annali se il suo nome non giace sul fondo del mare; ed uno Stefano Bettarini con il pettine nel calzettone, il quadro è completo.
Capitano di mille battaglie, ovviamente, Pierpaolo Bisoli. Toscanaccio verace, in campo Bisoli non toglie mai la gamba, a costo di caricare sul suo Ducato aziendale le carcasse dei malcapitati avversari. Il fantasista è quel Fabian O'Neill che ammalia tutti, compreso un Luciano Moggi in versione Babbo Natale che regala un bell'assegno a Cellino per portarlo alla Juventus un paio di stagioni dopo. Fabian, che all'epoca non era ancora in sovrappeso di 15 kg, è centrocampista estroso in campo come al bancone del bar. Piede pesante al volante, come quell'Hugo Campagnaro che non vorrei mai trovare sulla mia strada, O'Neill è conosciuto in Sardegna più per aver investito una coppia che per le sue giocate.

"Ha un nome il "pirata" che mercoledi' mattina ha travolto, con la sua auto, la moto sulla quale viaggiavano due persone e si e' poi dileguato: e' quello di Fabian O' Neill, il campione uruguaiano del Cagliari, che la Juventus avrebbe opzionato (18 miliardi piu' un altro giocatore) per il prossimo campionato. O' Neill era tornato martedi' mattina assieme alla squadra dalla trasferta di Roma, dove, con un gol spettacolare, aveva riaperto la partita e fatto tremare la Lazio, che poi ha vinto per due gol a uno. Come sempre, comunque, il calciatore aveva brillato tra i suoi compagni. Poi, approfittando anche della giornata di permesso concessa alla squadra per la sosta di campionato di domenica prossima, O' Neill, 26 anni, nato a Paso De Los Toros, Uruguay, in Italia dal ' 95, aveva passato la serata e la nottata in discoteca. Stava rientrando a casa, a Cagliari, alle 7 del mattino, quando, immettendosi nel viale Diaz, davanti alla caserma della Guardia di Finanza, ha investito con l' auto una coppia che viaggiava su una Suzuki 450. I due motociclisti - che fortunatamente indossavano il casco - sono stati travolti sull' asfalto, ma l' Audi condotta dal calciatore avrebbeproseguito nella marcia. Sono stati infatti gli uomini della Guardia di Finanza a soccorrere i due - Emanuele Cicala, 52 anni, funzionario di banca, e la moglie Carmela Angius, 46, dipendente comunale - e a dare l' allarme. Sul luogo dell' incidente i vigili hanno trovato la targa anteriore dell' auto pirata, persa nello scontro. Cosi' , nel giro di poco piu' di un' ora i vigili sono finiti a casa di Massimo Cellino, il presidente del Cagliari: l' auto e' infatti intestata alla societa' . E, nello studio del presidente, c' era, ancora frastornato, Fabian O' Neill. Il calciatore e' stato denunciato per lesioni e omissione di soccorso, un reato che prevede anche l' arresto. I vigili si sono limitati a inoltrare un rapporto alla Procura della Repubblica, mentre il calciatore ieri sera e' partito per Montevideo, convocato dalla nazionale del suo Paese per l' incontro con il Venezuela. Emanuele e Carmela Cicala sono stati medicati e hanno avuto una prognosi rispettivamente di 30 e 40 giorni".
Corriere della Sera.


A completare il reparto mediano, alcuni campionissimi nostrani e non. Beretta e Ciccio Cozza; Bressan e Marco Sanna; il sudafricano Tinkler ed un pescatore danese approdato per caso sulle coste cagliaritane, Christian Lønstrup.
In avanti, come detto, la coppia tutto estro e potenza composta da Robertone Muzzi e Dario Silva, con alle spalle un giovane Sandro Tovalieri che vuol far capire fin da subito che è lui l'unico vero romano. Ecco allora che fra un'amatriciana e una carbonara, Muzzi e Tovalieri trovano l'intesa vincente con Carletto Mazzone, che inspiegabilmente non riesce a relegare in panca Dario Silva.
Nelle partitelle del giovedì è chiaro a tutti che il centravanti sudamericano dovrebbe stare su una sdraio in spiaggia, con un paio di procaci sarde ai suoi lati ed un mojito nella mano destra. O'Neill è però il leader spirituale della squadra e fa coppia fissa con Dario Silva, che vedrà il campo in 33 occasioni. Ovviamente, fra uno stop mancato ed un capitombolo a centrocampo, il bomber uruguagio segna solamente 3 reti, portando Carletto all'anticamera degli inferi ogni maledetta domenica. Muzzi e Tovalieri, che potrebbero fare a gara a chi è più tarro, grigliano invece con regolarità. Fra due colpi di sole dal parrucchiere ed una seduta in palestra per modellare il fisico in vista dell'estate, i due trovano la forza di andare in rete e tenere a galla un Cagliari allo sbaraglio. Entrambi in doppia cifra, si presentano allo spareggio play-off contro il Piacenza con il borsone già pronto per il mare.
Al San Paolo di Napoli si consuma lo psicodramma rossoblu. Di Francesco scarica in porta dalla destra, Sterchele respinge come se fosse un palo di acciaio ed il Toro di Sora realizza l'uno a zero. Il Piacenza gioca bene ed il Cagliari non la vede quasi mai. Muzzi sembra appena uscito da una sessione di bicipiti concentrati e non si regge in piede, Dario Silva ha sulle spalle le notti brave in costa smeralda e l'unico a dannarsi l'anima è Sandro Tovalieri. Il cobra prova a riaprire il match con un destro preciso che batte Taibi, non ancora entrato nella fase narcolettica della sua carriera. Carletto in panchina si rianima e caccia delle urla tonanti come nemmeno il pescivendolo di Porta Palazzo sa fare. I suoi lo seguono, ma fra una pettinata di Bettarini e un liscio di Sanna la partita volge al termine. In contropiede è il solito Luiso a chiuderla, sancendo la definitiva retrocessione per il Cagliari della premiata ditta Muzzi-Dario Silva.
I due, dopo una stagione fra alti e bassi, non lasciano la nave e si rimboccano le maniche. Sotto la guida di mister Ventura iniziano un nuovo percorso di vita, salutando Tovalieri e preparandosi a nuove epocali gesta in cadetteria. Accanto a loro ci saranno giocatori che faranno sognare tutti noi per molti anni: Zanoncelli, Macellari, Vasari, De Patre, Carrus ed il sempre verde Giacomo "pomodoro" Banchelli.

25 ottobre 2013

La strana coppia: Kluivert-Andersson e quel terribile incubo rossonero

Correva l'anno 1997. Bill Clinton iniziava un mandato destinato a concludersi con un ridicolo "sexgate", Hong Kong tornava ad essere un territorio cinese ed il Milan di Capello affidava le sue speranze offensive ad una delle coppie più brutte di tutti i tempi: Andersson-Kluivert.
Dopo un'annata travagliata con il duopolio Tabarez-Sacchi ad alternarsi in panchina, il Diavolo si affida ad un vecchio amico, Fabio Capello. Il tecnico di Pieris, fresco di Scudetto con il Real Madrid, lascia due fantastici centravanti come Suker e Raul per tornare in riva al Naviglio, pentendosi amaramente dopo pochi allenamenti.
Berlusoni e Galliani vogliono fare le cose in grande e partono subito innestando la retromarcia. I rossoneri svendono Roberto Baggio al Bologna e acquistano uno svedese dal cognome tanto anonimo quanto il suo talento: Andreas Andersson. Capello, spero costretto dalla società, si sbilancia definendo Andersson il vero grande acquisto. Fin dai primi allenamenti si capisce che il lungagnone svedese sarà solo un grande problema. Non vede la porta nemmeno con il cannocchiale ed in coppia con il connazionale Blomqvist sarebbe stato perfetto a servire il salmone affumicato all'Ikea.
Capello è uomo tutto d'un pezzo, che non si perde d'animo, e sorride pensando che almeno può contare su Patrick Kluivert. L'olandese, carnefice del Diavolo nella finale di Champions del 1995, è universalmente riconosciuto come un campione. All'Ajax e con la maglia dell'Olanda ha dato spettacolo e bruciato ogni record, tanto basta per rendere Capello fiducioso. D'altronde il suo feeling con i tulipani è noto, ecco perchè porta a Milano un altro oggetto misterioso, quel Winston Bogarde che ancora oggi mi domando se non fosse un semplice buttafuori.

A chiunque sia dotato di occhi e cervello bastano poche amichevoli per capire che la musica, rispetto alla stagione precedente, non è destinata a cambiare. Andersson sembra un boscaiolo in cassaintegrazione, Ziege è un antico predecessore di Cassano, tutto acne e cross sbilenchi. La difesa fa acqua da tutte le parti ed i poveri Maldini-Costacurta rischiano a settembre di finire sul letto dell'analista. D'altronde come dargli torto, passare da Franco Baresi a Winston Bogarde o Andrè Cruz è una sventura paragonabile allo tsunami nel sud-est asiatico. Meno male che davanti c'è Kluivert, pensano i più. E invece no, a Milano sembra essere approdato il fratello scarso e indisponente di Patrick. Niente corsa, fisicità e goal a grappolo; solo tante pessime figure ed un posto da protagonista nella rubrica "questo lo segnavo anche io" a Mai dire goal.
A dire il vero la colpa non è tutta di Kluivert, che accanto a George Weah difficilmente si poteva trovare. Se a questo aggiungiamo una coppia di esterni composta da Gimmy Maini e Ibrahim Ba, la frittata è fatta. Maini, storico asso del Vicenza, è più famoso per la sua relazione con Alessia Merz che non per le sue giocate. A Milanello se ne rendono conto troppo tardi, il contratto quadriennale era già stato siglato. Ibou Ba, alias Wesley Snipes, è invece un estroso esterno francese. Acquistato a suon di milioni, si è rivelato un giocatore indisponente. Un asso nello scovare le pettinature più brutte del secolo, Ba non aveva la minima idea di come si giocasse a calcio. Correva come un matto senza meta, riesumando dopo pochi match da titolari un Roberto Donadoni ormai già stipendiato dall'Inps.
In tutto questo marasma di piedi buoni, in panchina marciva un certo Edgar Davids, che a gennaio viene regalato alla Juventus. D'altronde come fare quando si ha la possibilità di scegliere fra piedi tanto raffinati in mezzo al campo.

Fra un goal sbagliato da Kluivert, una birra scolata da Andersson, una nuova pettinatura di Ba e l'ennesima amnesia difensiva di Cruz, Capello porta il Milan ad un decimo posto di raro imbarazzo. Kluivert, che in allenamento aveva potuto rimirare i lisci di Beloufa e gli stop a inseguire di Smoje, prende armi e bagagli e lascia il Milan. Ad aspettarlo c'è il Barcellona del suo mentore Van Gall, per nulla spaventato dalla miseria di 6 reti messe a segno con il Milan. Quanto ad Andersson, ho raccontato della spaventosa plusvalenza che Galliani era riuscito a realizzare vendendolo in Inghilterra al Newcastle. Un'operazione di mercato pazzesca, la migliore forse di un Galliani che prima di acquistare di nuovo un uomo Ikea ci metterà molti e molti anni (Ibrahimovic ndr)

24 ottobre 2013

La strana coppia: Nuno Gomes-Mijatovic e quell'intruso brasiliano..

Correva l'anno 2001, la famiglia di Marta Russo non otteneva giustizia ed il regime militare di Milosevic volgeva al termine. Il governo olandese approva la legge sull'eutanasia; quello italiano risponde autorizzando la Fiorentina a schierare in avanti il tridente Morfeo-Mijatovic-Nuno Gomes.

In una Fiorentina ormai allo sbaraglio, orfana dei due storici leader Rui Costa e Batisuta, passati ormai ad altri lidi, le speranze della Fiesole erano riposte su personaggi poco rassicuranti: Domenico da Pescina, Pedrag da Pofgorica e Nuno Miguel Soares da Amarante.
Con la cessione di Rui Costa al Milan, infatti, i tifosi Viola hanno una sola certezza per la stagione ventura: Enrico Chiesa. Il ligure è attaccante esperto, navigato. Uno che ha confidenza col goal e non si lascia intimorire da nulla. Con lui a fianco persino quel pippero portoghese di Nuno Gomes, nella stagione appena conclusasi, era riuscito a timbrare il cartellino in 9 occasioni.
Mancini e i tifosi fiorentini, che stupidi non sono, sanno benissimo che solo Enrico può salvare la Fiorentina da una stagione anonima come un libro di Moccia, e chiedono rinforzi. Vittorio Cecchi Gori, però, riceve nel luglio 2001 il primo di una serie di avvisi di garanzia lunga quanto un papiro egizio. Il presidente fa dunque orecchie da mercante, intasca una palata di milioni dall'amico-nemico Berlusconi per portare in rossonero Rui Costa e parte per una rigenerante vacanza in compagnia di Valeria Marini. D'altronde nella sua cassaforte è stata trovata un'ingente quantità di cocaina, meglio rilassarsi un po' al mare finchè si può.
Fin dai primi allenamenti si capisce che il trend stagionale sarà apocalittico. In difesa la coppia Adani-Repka potrebbe tranquillamente essere assoldata da Equitalia; mentre sulle fasce Angelo Di Livio gioca con la consueta generosità ma è ormai costretto a festeggiare il compleanno con la monocandelina per mancanza di spazio sulla torta. Il settore mediano del campo porterebbe alla bestemmia pure gli Apostoli, scossi da una coppia composta da Sandro Cois ed il brasiliano Amaral, uno che sembra appena sceso da un peschereccio sul Rio delle Amazzoni. In avanti si attende la definitiva esplosione di Morfeo, ormai da sette stagioni in procinto di diventare un grande giocatore. Davanti, come detto, il solo Chiesa come baluardo. Mijatovic, arrivato insieme a Nuno Gomes a raccogliere l'eredità di Batistuta, è l'ombra del giocatore visto a Madrid. Lento, impacciato e con una pettinatura che nemmeno Al Pacino in Scarface, Pedrag ha trascorso il primo anno italiano a degustare i vini toscani.
La partenza della Fiorentina, nonostante un Chiesa in stato di grazia, è allarmante. Sconfitta dal Chievo, dal Milan e dalla Roma dell'ex Batigol, i Viola rimediano due sole vittorie contro Atalanta e Venezia. Proprio contro i veneti, però, la svolta della stagione. Il ginocchio di Chiesa fa crack, e le speranze di una stagione tranquilla vanno in fumo. Le sorti offensive dei toscani passano per i piedi del trio sopracitato, che ovviamente aiutano la banda Mancini a prendere la strada della retrocessione senza passare dal via.
Alla fine del girone d'andata i Viola sono in zona pericolo, con soli 14 punti in classifica ed una serie di risultati negativi contro le dirette concorrenti alla salvezza. Cecchi Gori pensa di svoltare la situazione, caccia Mancini e ingaggia Ottavio Bianchi, tecnico del secondo Scudetto partenopeo fermo da 7 stagioni. Sapendolo abituato a gestire personaggi del calibro di Maradona, i regali per il nuovo allenatore si chiamano Adriano Leite Ribeiro e Anselmo "spadino" Robbiati.
Adriano, che non è ancora il bestione da 110 kg che alcuni ricordano all'Inter e alla Roma, è un giovane di belle speranze. Approdato a Firenze via Inter, ha qualche kilo di troppo dopo i 6 mesi trascorsi a Milano all'ombra di Ventola e Kallon, non proprio Zico e Van Basten. Al cospetto di Nuno Gomes e Mijatovic, che non vanno in goal nemmeno contro gli allievi del Fiesole, Adriano sembra una leggenda del calcio. Ottavio Bianchi intuisce subito le sue potenzialità dopo una chiacchierata in trattoria, in cui il campioncino carioca fa fuori da solo due fiaschi di Chianti.

Inizia così il girone di ritorno, con la coppia Nuno Gomes-Adriano, pronti a festeggiare le reti ricordando i bei tempi andati in un portoghese dalla dubbia grammatica. Il trend, però, non cambia. La Fiorentina gioca male e racimola pochi punti, nonostante le bombe dalla distanza di Adriano, capace di smontare le mani al malcapitato portiere di turno con il suo mancino.
Purtroppo però, quando prendi goal da soggetti del calibro di Magallanes, Vugrinec, Scarchilli e Castroman, il tuo destino è segnato. Cecchi Gori prova l'ennesima carta a sorpresa e ad Aprile, tanto per buttar via ancora un po' di soldi, esonera Bianchi per affidare la squadra a Chiarugi. Luciano non è Mandrake e ovviamente può solo scortare la squadra ad una disonorevole retrocessione, stabilendo il record di 7 sconfitte nelle ultime 7 giornate di Serie A.
Con la retrocessione finisce l'incubo Viola per Adriano, che da li a poco incontrerà Cesare "pastore" Prandelli e Adrian "facciamo festa" Mutu in quel di Parma. Fortunatamente per i tifosi Viola, però, finisce anche per loro l'incubo della coppia Nuno Gomes-Mijatovic. Il portoghese, che in due stagioni ha segnato 14 reti, viene rispedito a Lisbona con un biglietto di sola andata. Ancora oggi, nei bar di Firenze, potete trovare fuori dalla porta la sua foto, subito sopra la scritta "io qui non posso entrare". Pedrag da Podogirca, invece, decide che è stufo di mangiare la fiorentina e bere brunello di Montalcino e si leva dalle scatole senza fare storie. Ad attenderlo c'è il Levante, squadra valenciana in cui chiuderà la carriera fra un litrozzo di sangria ed una paella come Dio comanda.

Esclusiva giovani : Francesco Pagani e i 201 giovani da non farsi scappare

Sono felice di presentare una nuova partnership con un blog bello, interessante e pieno di iniziative. Il blog in questione, per chi non lo sapesse, è Sciabolata Morbida. Spazio a cura di Francesco Federico Pagani, offre una bella retrospettiva sul calcio giovanile, quello che tutti gli amici di Esperto di Calcio amano tanto quanto le gesta dei campioni più affermati. L'essenza nel calcio sta nella gioia e nel divertimento di tutti i ragazzi, dai sei ai quarant'anni. Francesco ha deciso di racchiudere questa gioia in un libro, che parla di alcuni giovani talenti, che con sacrificio e passione cercano di emergere nel difficile mondo dello sport.

Esperto di Calcio ha incontrato Francesco e lo ha intervistato, per dare la giusta visibilità ad un libro che costa poco (0,99 centesimi) e vale molto: La carica dei 201.
In esclusiva, quindi, vi presento Francesco.

Ciao Francesco, raccontaci un pò. Chi sei, cosa fai nella vita?
Ciao a tutti. Da sempre appassionato di calcio e affascinato dalla “parola”, ho passato l'infanzia a divorare giornali e riviste specializzate.
Cinque anni fa ho quindi deciso di unire queste due passioni, concretizzandole in un blog: Sciabolata Morbida. Ci ho versato litri di inchiostro (virtuale) e profuso grandi sforzi, venendo comunque ripagato da molti complimenti di lettori e “gente del settore”.
Da circa tre anni, poi, faccio il giornalista in una televisione locale del varesotto.
Fondamentalmente sono due i sogni che ho nella vita: dilettarmi con il giornalismo. E perché no con lo scouting.

Perchè hai scelto di seguire i giovani talenti, cos'ha mosso questa scelta?
Credo sia andata più o meno così: la passione per il calcio è cresciuta con e dentro di me. Ad un certo punto della mia crescita ho iniziato a seguire, in maniera del tutto spontanea, l'under 21. Credo che a spingermi sia stato il gusto di vedere “in anticipo” i campioni del domani.
Così fin da tenerissima età (sono nato nell'85 e ricordo nitidamente di aver visto la finale dell'Europeo under21 del '94 contro il Portogallo, risolta da Orlandini) ho iniziato a seguire i giovani e, in qualche modo, a fare scouting. Tra i compagni di scuola, certo.
Da lì è stata un'escalation. Diventato grandicello ho iniziato a prendere anche più consapevolezza del mondo del calcio e mi sono spinto anche oltre l'under 21.
Ad esempio, mi resterà sempre nel cuore il Mondiale under 17 del 2009, dove i ragazzi della classe '92 guidata da Pasquale Salerno uscirono immeritatamente contro la Svizzera poi Campione del Mondo. O il XVIII Torneo Nacional Alevín de Fútbol 7 del 2011, che mi diede la possibilità di veder giocare ragazzi(ni) di solo una dozzina d'anni...

Quando hai pensato di scrivere un libro sui migliori giovani del calcio mondiale?
L'idea è nata l'anno scorso, quando un amico si imbatté in una lista riguardante i presunti “cinquanta migliori under 20 al mondo”.
La cosa mi stuzzicò molto.
Dato che sul mio blog avevo da tempo attiva una rubrica – molto apprezzata, devo dire – chiamata “Stars of the future” ci dormii su. Al risveglio l'illuminazione: avrei raccolto una serie di schede di giovani talenti in un libro.
Va detto che da sempre avevo in testa di provare, un giorno, a pubblicare qualcosa. E ho ritenuto che questa potesse essere l'idea giusta per cominciare.

Come mai proprio 201, è un numero che nasconde qualche simbolismo?
Quando ho iniziato a scrivere il libro, sinceramente, non avevo bene in mente che struttura gli avrei dato. Sono partito senza darmi, almeno inizialmente, un vero e proprio obiettivo.
Per scrivere un libro del genere non ci si può però basare solo sui nomi, bisogna soprattutto guardare molte partite. Fare del vero e proprio scouting, anche se non finalizzato alla procura o all'acquisizione di un giocatore. Il che ti porta a trovare in continuazione giocatori nuovi, degni di considerazione.
Così pensando al titolo mi è subito venuta in mente la “Carica dei 101”, famosissimo cartoon Disney. Ho quindi deciso di giocare con esso e continuare a sfogare la mia passione per lo scouting.
Non nascondo che è stato davvero un lavoro enorme. E che nel farlo mi sono dovuto dare un limite. Finendo così per escludere tanti ragazzi meritevolissimi, per un motivo o per l'altro. Ma attenzione: volerli schedare tutti significherebbe non porsi un limite. E quindi, non poter arrivare mai al momento della pubblicazione!
Questa è anche implicitamente la risposta ai tanti che mi hanno già – giustamente – scritto “avrei messo anche...”.

Sei legato a qualche ragazzo in particolare?
Sicuramente sì.
Sono legato, ad esempio, ai classe '93 francesi. Giocatori che ho visto giocare molte volte quando ancora non erano per nulla conosciuti e che sponsorizzo da sempre. Varane, Digne, Kondogbia, Sanogo e quel Pogba di cui l'anno scorso si sono accorti tutti anche in Italia (e di cui io parlai sul mio blog già mesi prima del suo arrivo alla Juventus).
Per non dire dei ragazzini che scoprii al già citato XVIII Torneo Nacional Alevín de Fútbol 7, come Javi Moreno (nome che farà accapponare la pelle dei milanisti), Brahim o Obama.
Ma anche i giocatori più esotici, come l'honduregno Lacayo, l'iraniano Jahanbakhsh o il malesiano Faiz occupano un posto particolare nel mio cuore, avendoli scoperti un po' per caso andando proprio alla ricerca di qualcosa di “non convenzionale”.
Menzione speciale per giocatori come Jedvaj e Iturbe: quando li schedai non erano ancora vicini all'arrivo in Italia.
Chiudo, legandomi ad Iturbe, con un nome in particolare che per ovvi motivi non è contenuto nel libro ma merita di essere citato: Sean Sogliano. Questo, ragazzi, è un dirigente che di calcio ne capisce come pochi. Se in Italia mettessimo sempre al centro il “merito” sarebbe già, con tutto il rispetto per il Verona, in una grande squadra.

Se dovessi scommettere su tre giovani, su chi punteresti?
Dire Pogba, Varane o Draxler sarebbe troppo facile, essendo tre ragazzi che giocano già stabilmente ad alto livello.
Nel contempo scommettere su chi ancora non si è imposto diventa sì più stuzzicante, ma anche molto più rischioso.
Per rispondere alla tua domanda, però, ti do tre nomi e ti spiego rapidamente il mio punto di vista: Bakkali, Meyer e Zouma.
I primi due sono ragazzi dal talento innato, con una capacità di controllo e gestione della sfera oltre che di rapidità davvero rara. Di contro sono però limitati da un fisico molto minuto. E ben sappiamo come i giocatori di questo tipo possano faticare ad imporsi. Entrambi, comunque, hanno i numeri per farlo.
Zouma invece è un difensore roccioso contro cui non vorrei mai scontrarmi. Ha alcuni limiti comunque limabili, ma con un potenziale fisico-atletico come il suo (esattamente al contrario dei due succitati) ha molte probabilità di “arrivare”.

Dei 201 recensiti, quanti sfonderanno davvero e chi rischia maggiormente di perdersi per strada?
Alla prima parte di questa domanda è praticamente impossibile rispondere.
Io, ci tengo a sottolinearlo, non ho voluto raccogliere i giovani più promettenti (bisognerebbe conoscere TUTTI i giovani che sognano un futuro da campioni) quanto dei ragazzi che pensavo fossero meritevoli, per le motivazioni più svariate, di essere raccontati.
Definire quanti potranno sfondare è impossibile. Nella crescita di un calciatore influiscono sempre miriadi di fattori, spesso nemmeno prevedibili.
Venendo a chi rischia di perdersi per strada, penso, per lo stesso motivo, di doverti rispondere con un “tutti”. Perché, tranne forse chi ormai è già ad alto livello, tutti gli altri potrebbero non farcela.

Ci parli un pò del paese più rappresentato nei tuoi 201 profili?
Sinceramente non mi sono preoccupato troppo di quale potesse essere il paese più rappresentato ma, va da sé, ci sono aree che anche solo per questioni di “accesso” vedono la presenza di più calciatori. In questo senso, ovviamente, mi riferisco ad Europa (Inghilterra, Spagna, Francia e Germania su tutte, chiaro) e Sud America.
Logico che reperire partite di calcio giovanile riguardanti altre zone del mondo è molto difficile. Però ci ho provato, e mi soffermerei un po' su questi paesi.
Ad esempio Giappone, Australia e l'accoppiata Stati Uniti – Messico. Quattro paesi in cui negli ultimi anni il calcio è cresciuto molto (seguendo volontà precise che hanno lavorato anche in senso “politico” per questo). E i frutti sembra che stiano arrivando.
Scarsa tradizione calcistica, ma tantissima voglia di fare. I nomi appuntati sono tutti, chi più chi meno, interessanti anche per l'Europa.
Un piccolo appunto mi permetto di farmelo da solo: avrei forse dovuto dare più spazio ad un paese in crescita rapidissima, come il Belgio. Che comunque è discretamente ben rappresentato da giocatori come Thorgan Hazard e Romelu Lukaku.

Il movimento giovanile italiano è destinato a tornare florido come un tempo?
E' tutta una questione politica. Di politica sportiva, evidentemente.
La sensazione, da non propriamente addetto ai lavori, è che in Italia si sia persa, anche in questo campo, la voglia di lavorare bene.
Si pensa più al profitto che non alla crescita tecnico-tattica di un ragazzo. E così il livello medio dei nostri campionati si è abbassato molto negli ultimi due decenni.
Cosa serve quindi per fare in modo che il nostro movimento giovanile torni ad essere florido?
Invertire la rotta proprio da un punto di vista della politica sportiva. Tornare ad investire davvero nei nostri settori giovanili e soprattutto nei nostri giovani. Costruire degli uomini e dei calciatori completi, non solo dei ragazzotti che sappiano, in qualche modo, stare in campo.
Quindi, “destinato” no. Da nessuna parte è scritto che l'Italia debba continuare ad essere una potenza, economica come calcistica. In entrambi i casi ci vuole la volontà da parte di tutti di lavorare affinché ciò accada.
Una volontà che ripeto, ahimè, non noto nel nostro Belpaese.

Quali sono i nostri giovani più promettenti?
Qualcuno l'ho ovviamente recensito all'intero de La carica dei 201, quindi evito di svelare troppo a chi ancora non ha letto il libro onde evitare il pericolo spoiler.
Ricollegandomi alla domanda precedente, però, sono più preoccupato di capire come questi ragazzi (ed altri, che per motivi di spazio non ho inserito) saranno cresciuti.
Purtroppo l'impressione è che oggi già a quindici-sedici anni ci si senta arrivati quando si indossano maglie (di settori giovanili) importanti.
Sbagliato. Quello è un semplice punto di partenza. Serve ricostruire nei ragazzi una cultura del lavoro e del sacrificio, perché nulla viene per diritto divino (ed in un mondo globalizzato in cui il livello dei paesi con scarsa tradizione calcistica si sta elevando non basta certo nascere in Italia per essere superiore agli altri). E poi tornare a formare a tutto tondo i calciatori. Lavorare per esaltare le peculiarità di ognuno, non limitarsi a costruire, come dicevo, ragazzotti che tengano il campo dignitosamente.

Chiusura con mattia destro, universalmente riconosciuto (da don balon in primis) come uno dei migliori giovani. tornerà ai livelli di prima?
Io personalmente non amo le “classifiche” quando si parla di giovani proprio perché lasciano il tempo che trovano.
Come dicevo in una delle risposte precedenti le variabili sono così tante che anche il talento più puro può finire con il “non arrivare”.
Venendo a Destro, credo sia un calciatore di buona qualità, ma non sono affatto convinto possa avere i numeri per essere un cosiddetto “top player”.
In più, avendolo potuto osservare anche da vicino in alcune occasioni quando indossava la maglia dell'under21, mi sembra un ragazzo che debba sentire grande fiducia attorno a sé, per provare a fare bene.
Ma ripeto, i risultati arrivano quando lotti e ti sacrifichi. Nulla è dovuto a nessuno. Mattia dovrà essere bravo a rimettersi in gioco, chinare la testa e dare tutto, se vuole mantenere le promesse fatte in gioventù.

Grazie mille Francesco.
Grazie a voi, è stato un piacere.

23 ottobre 2013

Storie di calcio; Real Madrid-Juventus, si scrive la storia

Giocare contro il Real Madrid non capita tutti i giorni. Ci sono squadre che rappresentano il calcio nella loro essenza, il Madrid è una di queste. Già, il Madrid. In Italia siamo soliti apostrofarlo come "il Real", ma per gli spagnoli esiste solamente "il Madrid", quella squadra capace di vincere 9 volte la Coppa più ambita. La squadra che ha fatto la storia del calcio e che evoca in me ricordi agrodolci.






Come quando la Juventus trovò gli spagnoli sulla sua strada nel '96, eliminandoli ai quarti di finale in un epico duello. A Madrid era stato un giovane fenomeno a "matare" la Juventus, quel Raul Gonzalez Blanco che avrebbe poi fatto parte della storia del calcio e del Madrid.
Ma la Juve di Lippi era squadra tosta, che pur non schierando solo fenomeni sapeva il fatto suo e non si arrendeva di fronte a niente e nessuno. Ecco perchè un altro giovane campione, Alessandro Del Piero, riaprì la qualificazione nel ritorno di Torino; ed un Michele Padovano ancora lontano da quei tristi vizietti, stese gli spagnoli battendo Canizares per la seconda volta nella stessa notte.



Ma anche la cocente sconfitta nella finale di Amsterdam, con la Juventus nettamente favorita e tornata a casa per il secondo anno consecutivo con le pive nel sacco. Una finale strana, tesa. Decisa da un goal in fuorigioco che, ancora oggi, fa gioire mezza italia e getta nello sconforto tutto il resto dello Stivale. Me compreso. Ancora sogno la notte il braccio alzato di Paolo Montero, quella palla sporca calciata da Mijatovic che lentamente s'insacca in rete. Lo slavo che alza il dito al cielo e corre ad esultare, raccogliendo l'abbraccio dei compagni. Del Piero che si avvicina alla panchina, si fa massaggiare la coscia e sparisce dal gioco, infortuna, proprio quando la squadra avrebbe avuto più bisogno del suo campione, del suo futuro capitano.



O la vittoria targata Trezeguet, Del Piero e Nedved nell'aprile del 2003. Una vittoria che aveva caricato tutti i tifosi bianconeri, ebbri di gioia per una delle partite più pazzesche di sempre. C'era da rimontare il due a uno patito al Bernabeu, con i goal di Ronaldo, Trezeguet ed un Roberto Carlos sempre letale. E gli uomini di Lippi lo fecero, eccome. Scendendo in campo con una furia agonistica straordinaria, in un Delle Alpi stracolmo e carico di tensione positiva. E ancora oggi ho negli occhi la sponda di Del Piero ed il goal di Trezeguet; il magico aggancio del capitano in area di rigore, la doppia finta a sedere Hierro ed il collo destro a battere Casillas sul primo palo. Come la parata di Buffon sul rigore del portoghese Figo, prima del definitivo tris di Pavel Nedved e del goal della bandiera di uno Zidane fischiato, ma in possesso di un'eleganza unica.
Eppure, anche in quella vittoria, c'è quel senso di amarezza che accompagna tutte le sfide con il Real, per quella maledetta ammonizione di Nedved, costatagli la finale poi persa ai rigori contro il Milan.



Infine, la doppia sfida del 2008, con sei punti pesantissimi e l'illusione che la Juventus fosse tornata la Vecchia Signora che ho sempre amato. Un 2-1 in casa, firmato da Del Piero e Amauri, con il goal di un centravanti fantastico come Ruud Van Nistelrooy  a rendere meno amara la lezione di calcio per il Madrid. E, soprattutto, l'impresa al Santiago Bernabeu, firmata dall'unico calciatore bianconero che avrebbe potuto godere di una standing ovation in quello stadio tanto esigente: Alessandro Del Piero. Un onore concesso a pochi, pochissimi campioni, ma meritato per un calciatore capace di stendere da solo il Madrid con una doppietta, prima di salutare e ringraziare il pubblico spagnolo, che gli riserva un applauso lungo e fragoroso.



Questo è giocare contro il Real Madrid per me. Sfidare i campioni, in gare maschie, corrette e combattute rende questo gioco e questo sport magico. La storia del calcio si fa anche questa sera.

22 ottobre 2013

L'insostenibile leggerezza di chiamarsi Totti e i deliri di un piccolo scribacchino

Ho sempre pensato che in Italia il giornalismo sia sopravvalutato. Abbiamo in posti di rilievo personaggi discutibili, che esprimono opinioni da bar, parlando per stereotipi e luoghi comuni. Gente come Jacobelli, Zapelloni, Padovan..hanno il pregio di essersi fatti da soli e di essere quantomeno più presentabili del duo Criscitiello-Pedullà, per i quali parlano da sole opinioni, video e trasmissioni su Sportitalia (non a caso network in totale fallimento). Il vero problema non è che esprimano un'opinione, ma che vengano trattati come dei guru dell'informazione, quando non sono altro che comunissimi opinionisti come ce ne sono a bizzeffe nella rete. A volte, nel tentativo di far sentire l'eco della propria voce in tutto lo Stivale, vanno fuori dal seminato. E' il caso di Padovan, che recentemente ha scritto su discoveryfototball.it quanto segue.

Mi è davvero difficile comprendere l’ondata di riprovazione popolare a proposito della mia opinione passata, presente e futura su Francesco Totti. Per me non è un fuoriclasse e, a 37 anni, è un calciatore finito che si limita, come ha fatto per gran parte della sua carriera, a giocare prevalentemente da fermo. I ricorrenti infortuni che lo hanno colpito e lo colpiranno ancora, altro non fanno che confermare la mia teoria. Struttura e muscolatura sono usurate e ogni sforzo agonistico, ancorché limitato ad una partita settimanale, viene pagato a caro prezzo. Non è una colpa, sono tributi che bisogna concedere alla biologia. Tempus fugit e nessuno può evitare questa tagliola, meno che mai chi intende giocare fino a quarant’anni.

Perché Totti non è un fuoriclasse? Perché non ha mai accettato di misurarsi in realtà più competitive della Roma e dell’Italia, perché ha vinto poco nel club e mai a livello internazionale, perché nel 2006 ha fatto un Mondiale da convalescente (Italia sempre senza un uomo se lui era in campo) ritrovandosi campione per meriti altrui. Non senza fondamento, la maggioranza obietta: ma ha segnato più di tutti (230 gol) ed è sulle orme di Piola. E’ vero, ma se guardiamo solo ai gol allora c’è da fare una serie di distinguo: 63 sono stati segnati su calcio di rigore e 20 su punizione. Più di un terzo, dunque, da calcio da fermo la posizione più consona all’indole tottiana. E poi un fuoriclasse – se lo è veramente – non sputa agli avversari (Poulsen all’Europeo di Portogallo) e meno che mai prende a calci per pura frustrazione un avversario migliore di lui (Balotelli nella finale di Coppa Italia del 2010).



Perché Totti è un calciatore finito? Perché il suo galleggiare (3 gol fatti di cui uno su rigore) è senza prospettiva, perché gli infortuni sono frequenti e dolorosi, perché sta facendo una stagione ordinaria in un contesto nel quale eccezionali sono gli altri (con il Napoli, uscito lui, la Roma ha vinto comunque e Pjanic si è esaltato). Candidarlo per un rientro in nazionale non è né realistico, né rispettoso di chi ha fatto e farà più di lui. Come tutti dovrebbero ricordare, al Mondiale si gioca ogni quattro/cinque giorni e il Totti attuale fatica a giocare una partita intera ogni sette. Se in una manifestazione del genere fosse vittima di un infortunio di media entità (gli stiramenti di cui soffre), la sua partecipazione sarebbe esaurita dopo una o due partite e la nazionale si sarebbe bruciata un posto. E poi con tutti i calciatori giovani e maturi che sono saliti alla ribalta negli ultimi due anni, l’Italia ha bisogno proprio di Totti per sentirsi rappresentata?


Ora, chi mi conosce sa che io non sono mai stato un fan sfegatato di Totti. L'ho sempre visto un gradino sotto rispetto a Roberto Baggio e Alessandro Del Piero, gli unici due calciatori italiani ad avermi fatto perdere la testa. Ma è assolutamente innegabile che Francesco Totti sia un fuoriclasse assoluto. Non si vince un Mondiale, non si segnano più di 200 reti in Serie A, non si diventa il leader di una grande squadra se non si ha qualcosa di speciale nel dna. Totti, romano e romanista, è il simbolo del calcio della Capitale. E' un'istituzione del nostro movimento sportivo e come tale va rispettato, anche quando sbaglia. Lo sputo a Poulsen, che tanto fa arrabbiare Padovan, è stata una brutta caduta di stile, lo sappiamo tutti noi e lo sa lui. Ma il danese, che per nostra sfortuna ha giocato in Italia, era un giocatore insopportabile, codardo e scorretto. Sarebbe stato più giusto affrontarlo vis a vis, ma ormai è passato. Totti ha scontato la sua gogna mediatica e la sua squalifica, redimendosi poi con il Mondiale 2006. Quanto a Balotelli, lui sì non è un campione. Non ha dimostrato nulla ancora. Ha grandi potenzialità, un fisico fuori dal comune e una tecnica di base sopraffina. Madre natura gli ha dato tutti gli strumenti per essere un grande campione, ma ad oggi non si avvicina nemmeno lontanamente a questa definizione. Francesco Totti è un campione, che Padovan lo riconosca o no. Lui ha giustamente il diritto di dire la sua, avendo un eco mediatico ben più rilevante del mio e di quello di tanti appassionati. Ma, caro Padovan, l'uscita su Totti è grossolana, stupida e senza fondamento.

Storie di calcio: la favola olimpica della Nigeria

L'Africa è un grande continente, ricchissimo di storia, natura e tradizione. In Africa sono nati alcuni grandissimi calciatori, ma quando penso al continente io non penso quasi mai a star del calibro di Samuel Eto'o, Didier Drogba, George Weah o Roger Millà. Il mio primo pensiero va sempre e solo alla Nigeria, una squadra che fin da piccolo mi ha fatto sognare ed innamorare di questo sport.
Maglietta Diadora indosso e bandierone d'ordinanza, ricordo come fosse ieri l'ottavo di finale del Mondiale americano. Una partita strana, giocata nel torrido caldo di Boston, decisa dall'unico vero fuoriclasse che l'Italia poteva schierare, quel Roberto Baggio che ha fatto impazzire tutti i bambini con il suo codino e la sua classe senza tempo. 
La favola nigeriana, però, si consuma con la vittoria nell'Olimpiade del '96. Gli States erano nel destino del paese africano e laddove l'Italia aveva impartito una cocente delusione, i nigeriani sono andati a riprendersi quello che gli spettava, con tutti gli interessi del caso.

Una Nazionale che annoverava grandi nomi, destinati a diventare delle star nel calcio mondiale. Pensiamo ad esempio alla difesa, composta fra gli altri da Taribo West e Celestine Babayaro. O al centrocampo, in cui brillava il talento di Jay-Jay Okocha, il dinamismo di Sunday Oliseh e la velocità di Tijani Babangida. O l'attacco, che schierava la grande coppia Nwankwo Kanu e Victor Ikpeba. Quest'ultimo, a me, ha sempre fatto impazzire. 




L'impresa, perchè d'impresa si deve parlare, è consumata nella torrida estate di Atlanta, al cospetto di due Nazionali piene zeppe di campioni e futuri fuoriclasse. La Nigeria, infatti, schianta nelle semifinali il Brasile di Mario Zagallo, non una squadra qualsiasi. I verdeoro schieravano dei veri fuoriclasse, come Dida in porta; Aldair e Roberto Carlos in difesa; Flavio Conceicao e Rivaldo a centrocampo; e un attacco atomico. Bebeto-Ronaldo è una coppia che avrebbe fatto paura a chiunque, a qualsiasi livello. Eppure i nigeriani non si perdono d'animo, giocano e corro come dei matti. Sotto per 3-1, le aquile riescono a ribaltare una partita che sembrava impossibile con una doppietta di Kanu, che prima porta le squadre ai supplementari con un goal all'ultimo istante; quindi manda a caso i brasiliani dopo appena 4 minuti dal fischio d'inizio. 



Una partita epica, destinata ad esser bissata da lì a poco. In finale, infatti, è un'altra grande del Sud America a trovarsi sulla strada della Nigeria. L'Argentina, che partiva con i favori del pronostico, schierava un folto numero di campioni: Javier Zanetti, Roberto Sensini e Ayala in difesa; Matias Almeyda, Diego Simeone e Ariel Ortega in mezzo al campo; Hernan Crespo e Claudio Lopez come terminali offensivi. Uno squadrone.
Eppure gli africani non si scoraggiano, vanno sotto (di nuovo) e rimontano con dedizione e coraggio. E' ancora una volta il novantesimo ad essere il minuto fatale per gli avversari, con Amunike che fa esplodere di gioia la sua nazione e un continente intero.



La classica favola a lieto fine quella della Nigeria, simbolo che nel calcio come nella vita tutto è possibile.

21 ottobre 2013

La strana coppia: Riganò-Di Napoli e le mangiate sullo stretto

L'amara sconfitta di Firenze mi ha costretto a rivedere i miei piani. Mentre sprofondavo nell'oblio sotto i colpi di un Pepito Rossi in formato Mondiale, ecco l'illuminazione: solo Christian Riganò può risollevare il mio triste pomeriggio.
Correva l'anno 2006 e Torino aveva ospitato i Giochi Olimpici, l'Italia aveva alzato la Coppa del Mondo sotto il cielo di Berlino ed il Messina si appropinquava a disputare la seconda stagione consecutiva in Serie A. Dopo essersi salvato con i goal di Alessandro Parisi, ricordato oltre che per la puntata facile alla Snai anche per avermi regalato un fantascudetto, i siciliani investono pesantemente sul mercato. Quello che arriva a Messina più che un colpo di mercato è un vero peso massimo. Christian Riganò, bomber di Lipari, è stufo di assaporare la bistecca fiorentina accompagnata da un buon Chianti e sente nostalgia di casa. Quando il Messina bussa alla porta della Fiorentina, Christian non ci pensa due volte e si trasferisce in riva allo stretto.
Agli ordini di Bruno Giordano si appresta a vivere la sua prima vera stagione da protagonista in Serie A, dopo aver trascorso fra Fiorentina ed Empoli due anni da comprimario.
Il Riganò che sbarca sullo stretto è un bomber consumato, pronto per la massima serie e per far coppia con un altro fuoriclasse della retrocessione: Arturo Di Napoli. I due, che insieme giocheranno praticamente tutta la stagione, relegano in panchina Sergio Floccari, giocatore che passerà alla storia come un attaccante più che affidabile. A Messina, però, Christian "arancino" Riganò e Arturo "disgrazia" Di Napoli non si toccano. Il primo è il centravanti di peso attorno a cui ruota il gioco della squadra; il secondo è l'uomo tutto estro e fantasia che inventa assist e sforna dribbling.
I tifosi siciliani sono carichissimi all'inizio del ritiro estivo, ma dai primi allenamenti iniziano a nutrire i primi fondati dubbi. Mister Bruno costruisce infatti la retroguardia intorno a due centrali che in pochi vorrebbero anche nella partitella di Ferragosto: Marc Zoro e Marco Zanchi. La pessima intesa fra due dei difensori più scarsi che il calcio professionistico ricordi porta in breve tempo Mark Iuliano ad essere il leader della difesa. Iuliano è difensore esperto, ha giocato in Nazionale e ha vinto tutto con la Juventus. Il difensore che approda a Messina, però, ha più kilogrammi che capelli e ben presto la difesa incomincerà a fare acqua da tutte le parti. Il centrocampo vede un regista d'eccezione come De Vezze ed un incontrista come Sasà Sullo, due bravi ragazzi che avrebbero potuto optare per un altro mestiere. Sulla fascia la velocità di Edgar Alvarez spaventa solo gli scippatori locali, che temono non essere più sufficiente lo scooter se il super Alvarez si mettesse ad inseguirli.
Davanti, come detto, la coppia dei sogni: Di Napoli-Riganò. Christian, arrivato nell'isola natia sovrappeso come non mai, ha tanta voglia di rivalsa. Lui è bomber vero, capace di segnare valanghe di goal nelle serie minori ed essere snobbato. Come un altro grande attaccante sottovalutato, Dario Hubner, Riganò scende in campo con il fuoco negli occhi. Nonostante una panza leggendaria, acuita dalla maglia bianca e aderente che lo sponsor tecnico ha prodotto per il Messina, Riganò inizia a segnare con la regolarità con cui si siede a tavola. Un goal tira l'altro ed il bomber di Lipari trascina i suoi nelle prime giornate, in cui il Messina porterà a casa 12 punti.
Poi, sul più bello, la luce si spegne. Fra un liscio difensivo di Zoro e l'ingaggio di un Candela troppo brutto per essere vero, il Messina inizia a sprofondare. Riganò non perde un etto, pur allenandosi con impegno e giocando come mai aveva fatto prima. A fine anno la classifica sarà impietosa, il Messina retrocede e Re Artù è riuscito per l'ennesima volta nell'impresa di lasciare il palcoscenico della massima serie. Riganò, nonostante avesse accanto alcuni giocatori indegni, chiude la stagione con 19 reti e viene eletto "cliente dell'anno" dalle trattorie di Messina, che pregano la società affinchè non lo vendano. Purtroppo la parentesi in Sicilia di Riganò è terminata, ad attenderlo ci sono le assolate spiagge di Valencia e le maxi porzioni di Paella, che il nostro mitico bomber si sbaverà per sei mesi abbondanti, giusto prima di tornare al suo vecchio amore: la Toscana.

Storie di calcio: il tulipano nero, Ruud Gullit

I miei primi ricordi di calcio parlano di campioni leggendari. La Juve di Platini, il Napoli di Maradona ed il Milan degli invincibili. Mica male.
Nel Milan che dominava in Italia ed in Europa c'era un istrionico ragazzone di colore, con dei lunghi rasta ed un fisico possente, a tratti devastante.
Nato ad Amsterdam il primo settembre del 1962, Ruud Gullit dà i primi calci nei dilettanti olandesi dei Meer Boys, esordendo nei professionisti con l'Haarlem nella stagione 1979/80. Dopo tre stagioni impreziosite da 91 presenze e 30 gol, il ragazzone della capitale viene acquistato dal Feyenoord che nel 1982 lo porta a Rotterdam. Dopo uno Scudetto e una Coppa d'Olanda, Gullit approda al PSV Eindhoven nel 1985, dove in due stagioni si impone alla scena internazionale con 68 partite e ben 48 gol in campionato.
Al Torneo Gamper di Barcellona attira l'attenzione di un certo Nils Liedholm, che di lui dice: «È come Falcao». Nel 1986 è lo svedese a consigliare a Silvio Berlusconi, neopresidente del Diavolo,di acquistare Gullit dal Psv. Il Barone dice al Cavaliere: «Un grande, possente atleta, può giocare in tutti i ruoli. Può fare il libero e il centravanti».
Berlusconi indaga e osserva in prima persona il ragazzone colored, rimanendone incantato dalla strepitosa personalità calcistica. Parte alla carica e ordina a Galliani: "prendiamolo". E lo prende, superando Giampiero Boniperti che lo stava corteggiando per la Juve da mesi.
Ruud arriva a Milano in un afoso giorno di luglio, lo presentano in via Turati e gli mostrano la gigantografia di Gianni Rivera: «Chi è?», sgrana gli occhi l'olandese. La gaffe passa alla storia, come le sue esternazioni. Gullit diventa subito uno straripante personaggio. Lui, nel bene e nel male (infortuni compresi), fa sempre notizia. I suoi gol, le sue partite, le sue polemiche, i suoi concerti, le sue dediche, le sue famose scelte di vita. Con quelle treccine passare inosservato era impossibile; con quel fisico e quella stazza sovrastare i difensori avversari era naturale.
Di lui si ricordano, nell' ordine, le vittorie, i colpi di testa, il sorriso e la schiettezza. E una disarmante capacità di marchiare con il proprio nome le partite che contano. Maradona da Napoli lo attacca: «Bella forza, dietro di lui c'è Berlusconi con la sua televisione e il suo potere economico». Botta e risposta rovente sui giornali e poi in campo. Ai primi di gennaio 1988 a San Siro, dopo la sosta natalizia, è in programma Milan-Napoli: i rossoneri vincono quattro a uno, Gullit è devastante, il migliore in campo, segna e fa segnare e a fine partita dirà a Dieguito: scusa, ti serve altro?



Con il Milan vince molto, i tiofsi lo adorano, Sacchi lo ama, Berlusconi invece ha più feeling con Van Basten e Rijkaard, un pò schiacciato dalla forte personalità di Ruud. Ad un giornale olandese, nella stagione 1992-92, Gullit dichiara: «Berlusconi vanitoso come uomo e come presidente». I rapporti diventano difficili e Gullit, dopo la sconfìtta nella finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia, lascia il Milan dopo aver rotto ogni tipo di rapporto con Fabio Capello, con cui si racconta siano quasi arrivati alle mani negli spogliatoi.
Ad aspettarlo c'è la Sampdoria di Mancini. Gullit è felice e dice: «E’ una scelta di vita». Si trasferisce a Nervi, sul mare, e con i blucerchiati gioca il suo miglior campionato italiano: 15 reti, ivi compreso quello show senza precedenti proprio contro il Diavolo. E’ il 31 ottobre 1993 a Marassi, contro i rossoneri di Capello, Gullit è carico come una molla. Corre, tira e trascina la squadra. A dodici minuti dalla fine, il tabellone dello stadio segna 2-2. Gullit riceve la palla palla al limite dell' area e con un destro secco infila l'ex compagno ed amico Seba Rossi, guardando verso la panchina di Capello con aria compiaciuta.
Boskov se lo gode e lo descrive con uno dei suoi magici epiteti: «Ruud Gullit è grande cervo che esce di foresta». Berlusconi si pente di aver fatto partire Gullit e dà vita al primo di una lunga serie di revival (Capello, Simone, Shevchenko, Kaka..) che contraddistinguono la sua gestione. Il presidente in persona lo richiama: «Ruud torna, dimentichiamo quello che è successo». Ruud accetta, ma l'amore con il Diavolo non è più lo stesso, Ruud non è più lo stesso. Ha rotto i rapporti con la Nazionale alla vigilia dei Mondiali di Usa '94 e prepara il suo grosso fisico ad un cambio di vita.
Il Milan-bis dura pochi mesi, così come la seconda stagione con la maglia della Sampdoria, che a fine anno lo lascerà andare in Inghilterra, dove lo aspetta il Chelsea, che con Gullit Vialli pensa di fare il botto.

Gullit con i blues è allenatore-giocatore, il primo della storia. Poche settimane e scoppiano i conflitti con Gianluca Vialli, che lo porta nel giro di pochi mesi all'esonero. Gullit non è uno che si arrende, non le manda a dire all'italiano e si prepara ad una nuova avventura in terra britannica. Il Newcastle United gli dà l'ultima occasione e al primo anno arriva in finale di FA Cup ma il secondo anno dopo 5 sconfitte di fila viene sollevato dall'incarico e Ruud inizia a godersi la nuova fase della sua vita.

Twitter Delicious Facebook Digg Stumbleupon Favorites More