Un talento pazzesco, incredibile. Chiedete a qualsiasi danese chi è il calcio, e vi arriverà questa risposta: Michael Laudrup. Faro della nazionale bianco-rossa e di molti club europei, è oggi un tecnico di grande prospettiva.
Riviviamo la sua carriera da calciatore, con il profilo tratto da tuttojuve.com:
Nasce a København nel giugno del 1964. Suo padre è un bravo centrocampista del Vanlose, del KB København, del Brøndby e della Nazionale. Michael segue il papà anche in Austria, dove milita nel Wiener Sportklub. Il cucciolo osserva ed impara.
Un giorno papà Finn lo vede in cortile mentre tira calci al pallone e capisce che il biondino ha talento. Michael imita la carriera del padre militando nel Vanlose, nel Brøndby e nel KB di København dove esplode. Rientra nel Brøndby giusto il tempo per entrare nell’obiettivo della Nazionale e della Juve.
A Boniperti lo consigliano John Hansen e Mario Astorri. In Danimarca vedono in lui l’erede di Simonsen. Lo vogliono il Liverpool ed il Barcellona, ma il padre sa che la strada meno pericolosa è l’Italia. Finn sceglie dunque la Juve. Ma nella Juve giocano Platini e Boniek, pertanto Michael è parcheggiato nella Lazio.
È sotto gli occhi di tutti che è in possesso di qualità incredibili, soprattutto nel controllare e nel calciare la palla, ma è altrettanto evidente che le sue caratteristiche tecniche e soprattutto la sua giovane età difficilmente gli avrebbero consentito di esprimersi ed emergere in una squadra come la Lazio, che è costretta a lottare per non retrocedere e, quindi, ad usare la spada molto più che il fioretto e ad affidarsi alla difesa, spesso ad oltranza, molto più che all’attacco.
Nonostante il carisma di Chinaglia e l’arrivo di Batista, un altro straniero che avrebbe incontrato problemi ancora più grossi di “Michelino”, i pessimi risultati trasformano, sin dalle prime battute, in una battaglia per la salvezza un campionato che era stato annunciato addirittura da Coppa Uefa. “Michelino” conosce le angosce delle sconfitte in serie, i traumi dei cambi a ripetizione dell’allenatore; le fughe da “Tor di Quinto”, il campo di allenamento della Lazio, con la protezione della polizia contro gli eccessi dei tifosi delusi; i lunghi ritiri lontano dalla capitale in un paesino dove ci si allena solamente, si risponde alle domande dei giornalisti e si gioca a carte con i compagni.
In quei due anni romani, Laudrup ha problemi anche con gli allenatori: Carosi, lo schiera solo per non irritare una parte della stampa e lo obbliga a rientri difensivi che non fanno parte del repertorio del danese, esponendolo, inevitabilmente, a prestazioni deludenti ed a figuracce. Dopo Carosi, arriva Lorenzo, l’argentino di ferro, legato ad un vecchio calcio che il povero “Michelino” non ha mai sentito parlare. È costretto ad imparare cosa può la superstizione nel modo del calcio e come, per fare punti, il tecnico possa imporre concetti ed insegnamenti che litigano con la più elementare etica di questo gioco. Laudrup non riesce ad adeguarsi a tutto questo ed, inevitabilmente, anche la sua seconda stagione romana è deludente e si conclude con la mortificazione estrema della retrocessione in serie B.
Finn un giorno parla chiaro a Boniperti: «O me lo porta a Torino o me lo riporto a København».
L’ultimatum ha effetto. Comincia così la storia bianconera di Laudrup che ha ventuno anni ap-pena. A Torino diventa il pupillo di Boniperti ed il beniamino di chi ama il bel calcio. “Michelino”, in bianconero, sorprende tutti: Trapattoni riesce, in poco tempo, ad assemblare una squadra rinnovata in tanti pezzi, anche fondamentali.
Il Laudrup della Lazio, senza nerbo e carattere, regolarmente inutile in trasferta e bravo, soprattutto, a segnare dei goal, anche belli, ma quasi sempre a risultato già acquisito, diventa subito il “Principe di Danimarca” proprio per la sua capacità di essere spesso determinante e la sua qualità è comunque altissima; goal come quelli segnati a Tokyo, quando, con una giocata impossibile, permette alla Juventus di andare ai supplementari di una finale Intercontinentale che avrebbe poi vinto ai rigori, sono destinati a restare nel tempo e nella memoria dei tifosi.
Quando è in giornata, Laudrup è un giocatore immarcabile: i primi tre passi sono qualcosa di unico, con la palla tra i piedi non perde velocità, capace di saltare chiunque: La sua finta di corpo è micidiale, il tiro, quando ci prova, è notevole, la tecnica è sopraffina, è in possesso di una grande intelligenza calcistica. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare un grandissimo, ma ha dei grandissimi limiti caratteriali.
Esemplificativa, in tal senso è la frase di Platini: «Laudrup? È il miglior giocatore del mondo, in allenamento». Definizione straordinariamente sintetica, che racchiude tutto; Michael sarebbe stato, semplicemente, il migliore del mondo se non ci fosse stata la competizione agonistica.
Torino gli piace perché è meno chiassosa e perché, a suo dire, somiglia a København. Lui ci tiene a spiegare che i danesi non sono noiosi, ma semplicemente più riservati. Trascorre le giornate con la fidanzata che diverrà sua moglie. Insieme ascoltano Bob Dylan, i Beatles e Joan Baez. Ama il golf, il tennis, gli spaghetti, la pizza napoletana ed i film di Woody Le sue doti sono la velocità, le improvvise convulsioni tecniche di un dribbling messo in pratica con leggerezza insostenibile per gli avversari. Però non ha il dono della continuità. Lui accetta elogi e critiche e ricorda che il suo punto debole è «il colpo di testa, nei palloni alti proprio non ci so fare».
Purtroppo, per “Michelino” e per tutti i tifosi, la Juventus è alla fine di un ciclo: arriva Marchesi che predilige il calcio difensivo ed obbliga spesso Laudrup a compiti di copertura. “Michelino” alterna grandi giocate a prestazione imbarazzanti e così preferisce emigrare in Spagna, dove, con il Barcellona e con il Real Madrid, ritornerà ad esprimersi a livelli altissimi, conquistando subito i tifosi.
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